La diffusione del marxismo dopo Marx

La diffusione del marxismo dopo Marx
La diffusione del marxismo dopo Marx
  1. Le vicende della “Seconda internazionale”

Marx riteneva che la rivoluzione da lui auspicata dovesse verificarsi nella parte più “evoluta” dell’Europa, dove il sistema capitalistico era maturato a tal punto da rendere effettiva la caduta tendenziale del saggio di profitto, a causa della massiccia introduzione della tecnologia e della crescente disoccupazione operaia. Non a caso egli studiò a fondo il meccanismo economico e produttivo dell’Inghilterra, che nell’Ottocento rappresentava la realtà industriale più progredita. In realtà, le cose andarono diversamente 
rispetto alle sue previsioni, e proprio l’Inghilterra risultò, tra i paesi europei, la meno permeabile alla diffusione del marxismo.

La prima grande rivoluzione in senso comunista, 
condotta da Lenin (1870-1924) in nome di Marx, avvenne nel 1917 in Russia, un’area contadina, estremamente arretrata dal punto di vista dello sviluppo industriale. Dopo quella russa, un’altra grande rivoluzione comunista si verificò nel 1949 nella Cina rurale e povera di Mao Tse-tung (1893-1976). La Russia e la Cina (insieme ad altre realtà minori dell’Asia e dell’America Latina, come Cuba) furono, dunque, le aree in cui nel corso del Novecento il pensiero marxista si diffuse non soltanto in chiave teorica, ma anche (e soprattutto) politica.

Il marxismo, tuttavia, conobbe in Europa un grande sviluppo alla morte di Marx ed 
Engels, sviluppo strettamente connesso alla storia del movimento operaio internazionale e dei vari partiti socialisti e comunisti. La prima fase della sua diffusione è quella corrispondente alle vicende della “Seconda internazionale” (l’organizzazione fondata a Parigi nel 1889 dai socialisti e dai laburisti europei allo scopo di coordinare l’azione dei movimenti nazionali degli operai) che, al contrario dell’organismo che la precedette (la “Prima internazionale”), fu definitivamente dominata dal socialismo marxista. Se nella prima organizzazione degli operai si assistette soprattutto al conflitto tra marxisti e anarchici (in cui prevalsero i primi con l’espulsione dei secondi), nella seconda il dibattito dominante fu quello tra marxisti “rivoluzionari” – cioè sostenitori della rivoluzione sociale come 
mezzo inevitabile per l’instaurazione del comunismo – e marxisti “revisionisti” – cioè fautori di un programma di riforme con cui trasformare progressivamente la società.

Interprete principale di tale conflitto fu il praghese Karl Kautsky (1854-1939), il quale redasse il programma del Partito socialdemocratico tedesco a Erfurt (1891), che influì profondamente sugli orientamenti della socialdemocrazia europea. Egli, fautore di una strategia di «logoramento» del capitalismo e di trasformazione dello Stato borghese in senso socialista, assunse una posizione intermedia tra i revisionisti e i rivoluzionari. 
In linea con questi ultimi, non metteva in discussione l’analisi della società fatta da Marx, in 
particolare riguardo all’imminente crollo della società borghese, e dunque sosteneva la 
necessità della rivoluzione per giungere a una società senza classi. Questo era per lui lo 
scopo ultimo e il «programma massimo» che dovevano perseguire i socialisti (da cui il termine “massimalismo”): al tempo stesso, però, ammetteva degli scopi immediati della lotta operaia – la riduzione dell’orario di lavoro, il suffragio universale, la parità tra uomo e 
donna, la sostituzione delle imposte dirette con imposte indirette a carattere progressivo, 
l’istruzione pubblica e una legislazione sociale -, che dovevano costituire un «programma minimo» realizzabile con riforme graduali e moderate (da cui il termine “minimalismo”).

Tra i revisionisti va invece ricordato il socialdemocratico tedesco Eduard Bernstein (1850-1932), il quale affermava la necessità di una “revisione” delle teorie di Marx, sulla base dei mutamenti avvenuti nel sistema capitalistico che il filosofo non aveva potuto prendere in considerazione. Bernstein, infatti, faceva notare che il capitalismo non si era avviato alla crisi, ma era riuscito a superarla e ad evitare il crollo previsto da Marx. Nell’opera I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia (1899), adattando le tesi marxiane al nuovo contesto storico-politico della fine dell’Ottocento, sostenne pertanto che occorreva rinunciare definitivamente al progetto della trasformazione 
violenta dello Stato borghese, per imboccare la via delle trasformazioni graduali, combattendo l’autoritarismo del potere con strumenti democratici. Nella sua prospettiva veniva 
meno il contrasto rilevato da Marx tra liberalismo e socialismo; anzi, le conquiste della civiltà liberaldemocratica (suffragio universale, rappresentanza, libertà) erano colte come la condizione perché la classe operaia potesse elevarsi e aspirare a condizioni di vita più dignitose.

 

  1. Lenin, i socialisti rivoluzionari e la “Terza internazionale”

In netto contrasto con la posizione revisionista, prevalente nella socialdemocrazia degli 
inizi del Novecento, il russo Lenin (1870-1924) – pseudonimo di VIadimir Il’ic Ul’janov – difende con forza l’idea della rivoluzione violenta da parte del proletariato. Quest’ultimo non ha altro strumento a sua disposizione per rovesciare lo Stato borghese, che va abbattuto insieme con le sue istituzioni.

Secondo Lenin se nel periodo di passaggio al socialismo lo Stato è ancora necessario, successivamente sarà opportuno procedere a una riduzione graduale dei suoi compiti, ad esempio relegando i funzionari dell’apparato statale al ruolo di meri esecutori (sempre 
revocabili) di incarichi particolari. L’avvento del comunismo implica una fase transitoria che anche Lenin definisce «dittatura del proletariato», destinata a estinguersi come 
ogni altra forma di Stato. Il comunismo renderà superfluo lo Stato, perché verrà meno la 
necessità di repressione, nel senso che non vi sarà più una classe contro cui lottare in 
modo sistematico e organizzato.

Con il progredire del processo rivoluzionario russo, Lenin attenua il suo ottimismo circa la possibilità di attuare, nella fase di transizione, una forma di democrazia diretta, così come aveva ipotizzato Marx. Questa, infatti, implicando la partecipazione di tutti i cittadini al 
potere legislativo ed eliminando il ricorso al principio di rappresentanza (cioè la delega del potere politico ad alcuni rappresentanti nominati tramite elezioni), richiederebbe una matura 
consapevolezza da parte della globalità della classe operaia, fatto che, secondo Lenin, non è 
realizzabile. Sarebbe infatti un errore, come lui stesso sottolinea nel saggio Che fare? del 1902, pensare che tutta la classe operaia «sia capace di elevarsi alla coscienza e all’attività 
dell’avanguardia»; e ancora, «dimenticare la differenza che esiste tra l’avanguardia e le masse che gravitano su di essa, dimenticare il dovere dell’avanguardia di elevare strati sempre più 
vasti al suo livello, vorrebbe dire ingannare se stessi». Secondo Lenin, pertanto, sono indispensabili delle forze, delle «cinghie di trasmissione», che colleghino le avanguardie rivoluzionarie, cioè le personalità più avanzate del movimento operaio, al resto della massa; una 
teoria, quest’ultima, che conduce Lenin oltre il pensiero di Marx. Egli, infatti, identifica tale 
«avanguardia organizzata» con il Partito comunista, che a suo avviso deve prendersi carico della formazione della «coscienza» del proletariato e della guida della sua azione 
rivoluzionaria. I proletari, contadini e operai, non hanno la preparazione teorica sufficiente 
per comprendere le contraddizioni della società capitalistica e quindi per mettere in atto le misure necessarie per superarle; essi, abbandonati alla propria iniziativa spontanea, possono 
al massimo ottenere alcuni miglioramenti nelle condizioni di lavoro, ma senza di fatto modificare il sistema di produzione che è all’origine delle ingiustizie sociali e dello sfruttamento. 
In altre parole, i proletari non sono in grado, da soli, di dare vita a una vera rivoluzione politica, capace di ribaltare i rapporti di potere e di destituire il dominio della borghesia capitalista. “Dittatura del proletariato” viene dunque a significare, per Lenin, “dittatura politica del 
partito”, che deve assumere il potere nelle sue mani.

In consonanza con le posizioni di Marx e Lenin, all’interno della socialdemocrazia tedesca i socialisti rivoluzionari si scontrano con l’ala maggioritaria dei revisionisti, intraprendendo la via della scissione. Una delle personalità più significative in questo contesto è la polacca Rosa Luxemburg (1871-1919), la quale concorda con Lenin sulla necessità della rivoluzione proletaria per trasformare in modo radicale l’economia e la società. La pensatrice, però, mette l’accento sulla creatività delle masse, sulla loro spontaneità rivoluzionaria, che i dirigenti del partito non devono forzare o reprimere in una 
«camicia di forza burocratica». Luxemburg si allontana dalla concezione leninista del Partito
comunista, che considera un organismo di accentramento del potere: per lei, infatti, nella prospettiva di Lenin il partito diventa un apparato burocratico che si sovrappone alle masse operaie, promuovendo non tanto la dittatura “del” proletariato quanto una vera e propria dittatura “sul” proletariato. Rosa Luxemburg rivendica invece una democrazia politica che vede la classe operaia internazionale protagonista del proprio destino.

Allo scoppio della Prima guerra mondiale nel 1914 – quando la “Seconda internazionale” si scioglie a causa degli scontri interni tra i sostenitori dell’intervento militare e coloro che lo condannano -, la filosofa si schiera con il fronte pacifista, dando vita, in opposizione al militarismo dell’ala maggioritaria del Partito socialdemocratico tedesco, alla Lega di Spartaco (dal 
nome del celebre gladiatore Spartaco, che nel I secolo a.C. aveva capeggiato una rivolta antischiavista contro Roma), che promuoverà la fondazione del Partito comunista tedesco.

Nel 1916, insieme ad altri esponenti della Lega, è arrestata in seguito al tentativo, fallito, di organizzare uno sciopero internazionale contro la guerra, e condannata a due anni di reclusione. Durante la prigionia scrive numerosi articoli, tra cui “La rivoluzione russa”, in 
cui mette in guardia contro le possibili derive illiberali di quest’ultima. Viene brutalmente assassinata il 15 gennaio 1919 durante la repressione, a opera dell’esercito inviato dal 
governo socialdemocratico, di un’insurrezione operaia alla quale aveva preso parte.

Nel marzo del 1919, per iniziativa dei bolscevichi russi, nasce la “Terza internazionale” o 
”Internazionale comunista”, detta anche “Comintern”, con lo scopo di favorire la nascita dei 
partiti comunisti in tutto il mondo e di diffondere la rivoluzione. La politica internazionalista di tale organizzazione, tuttavia, subisce una radicale trasformazione con la morte di Lenin nel 
1924 e l’ascesa al vertice del Partito comunista sovietico di Stalin (1878-1953), il quale impone al Comintern l’idea del «socialismo in un solo paese» e avvia lo sviluppo economico 
”forzato” della Russia e dei suoi paesi satellite, instaurando un rigido e isolato sistema totalitario. Tale potere repressivo – ben diverso dal comunismo teorizzato da Marx – durerà 
fino alla morte del dittatore (1953), e ancora negli anni successivi, nonostante le iniziative di 
”destalinizzazione” da parte dei suoi successori e la condanna dei crimini commessi dal regime con l’eliminazione sistematica degli oppositori, deportati a migliaia nei campi di lavoro 
forzato (i gulag). Sarà solo con l’ascesa al potere di Mikhail Gorbaciov, nel 1985, che avrà inizio una politica di riforme radicali, le quali attiveranno il meccanismo che porterà alla fine della Guerra fredda, al crollo del muro di Berlino (1989) e alla stessa dissoluzione dell’URSS.

 

  1. Antonio Gramsci e la nascita del Partito comunista italiano

In Italia, fu Antonio Gramsci (nato ad Ales, in Sardegna, nel 1891) che, contrario alla linea revisionista dei socialisti e appoggiato dal Comintern, contribuì alla nascita del 
Partito comunista italiano (1921) di cui divenne poi segretario nel 1924.

Trasferitosi dalla Sardegna a Torino, Gramsci aveva fondato nel 1919 la rivista “Ordine nuovo”, sulle cui pagine si dibatteva quello che era allora un problema fondamentale, vale a dire la possibilità per il proletariato italiano di darsi una struttura organizzativa di classe che potesse essere paragonabile a quella dei soviet russi, i comitati rivoluzionari che in Russia si erano costituiti come espressione diretta dei lavoratori. Egli, a questo proposito, vedeva nei “consigli di fabbrica”, sorti a Torino in seguito a una serie di scioperi, la prefìgurazione di veri e propri centri di democrazia diretta e di autoregolamentazione dei processi di produzione da parte degli operai.

Già allora, però, Gramsci pensava che le rivoluzioni non si potessero «copiare» e che il 
fenomeno rivoluzionario in Italia dovesse avere caratteristiche peculiari. La rivoluzione era per lui un evento in cui si dovevano congiungere l’elemento soggettivo (la coscienza della 
classe operaia) e l’elemento oggettivo (la crisi del sistema capitalistico). Il carattere processuale della rivoluzione portava inoltre Gramsci a sostenere che la presa del potere da parte della classe operaia non potesse essere il frutto del crollo improvviso e fatalistico 
del capitalismo, ma il risultato di un paziente lavoro di preparazione delle condizioni 
del proletariato, che doveva intervenire come soggetto collettivo sui meccanismi sociali 
ed economici. In altri termini Gramsci, pur aderendo alla prospettiva tradizionale del marxismo secondo cui la storia ha una direzione ben precisa che conduce al superamento del 
capitalismo e della società borghese, metteva l’accento sugli aspetti soggettivi di questo processo, che doveva essere portato a termine grazie all’opera del partito rivoluzionario.

Egli aveva accolto con entusiasmo l’annuncio della Rivoluzione russa, da lui interpretata 
come la dimostrazione che l’iniziativa rivoluzionaria poteva avere successo anche saltando fasi (ad esempio quella dello sviluppo capitalistico, pressoché assente in un paese arretrato come 
la Russia) considerate necessarie in una visione deterministica del movimento storico. Quando l’esperienza dei consigli di fabbrica si esaurì, Gramsci si convinse sempre più della necessità 
di dar vita a un partito degli operai, che assumesse cioè la direzione del movimento rivoluzionario. Nel 1926 fu arrestato, in seguito alle leggi fasciste, e successivamente condannato a venti anni di carcere. Morì nel 1937, poco dopo la sua liberazione.

Il pensiero gramsciano è affidato ai Quaderni del carcere, scritti tra il 1929 e il 1935 presso la casa penale di Turi (Bari), dove trascorse la maggior parte della sua prigionia. I Quaderni non sono un’opera organica, ma un ricco repertorio di spunti e riflessioni su 
un’incredibile molteplicità di temi e problemi, sia di carattere politico, sia di genere storico-filosofico e artistico-letterario. Per quanto Gramsci non potesse disporre di una biblioteca di consultazione, stupisce la vastità dei riferimenti alla cultura italiana e straniera.

 

Il concetto di «egemonia culturale[1]»

Uno dei concetti più originali e interessanti della ricca riflessione gramsciana è quello di egemonia culturale, con cui l’autore indica la direzione intellettuale e morale della società assunta da parte di un gruppo o di una classe. Tale dimensione, che nella 
prospettiva marxiana costituisce la sovrastruttura ideologica di un determinato sistema 
di potere ed è subordinata alle trasformazioni della struttura economica, nella visione di Gramsci è invece un fattore prioritario e determinante. Secondo il filosofo italiano, le previsioni di Marx relativamente al crollo del sistema capitalistico nei paesi occidentali non si sono avverate poiché in tali nazioni l’egemonia culturale della borghesia è rimasta decisamente preponderante rispetto a quella del proletariato; la borghesia, 
cioè, in quanto classe dominante, è riuscita a mantenere la direzione sull’intera società realizzando un «blocco storico» di forze sociali e politiche che le hanno garantito non solo la 
subordinazione delle altre classi, ma anche il loro consenso.

Gramsci ritiene infatti che gli strumenti di cui un gruppo sociale si avvale per conquistare e conservare il proprio potere siano di due tipi: da un lato quelli repressivi e coercitivi con cui arriva a essere «dominante» (ad esempio le forze di polizia, l’esercito … ), dall’altro quelli attraverso i quali organizza il consenso (la scuola, i partiti, i sindacati, la stampa, 
il cinema, la Chiesa … ) con cui diviene «dirigente». Ecco che cosa scrive al proposito:

 

Un gruppo sociale è dominante dei gruppi avversari che tende a liquidare o a sottomettere anche con la forza armata, ed è dirigente dei gruppi affini e alleati. Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa
una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita il potere ed anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare ad 
essere anche dirigente.

A.Gramsci, Quaderni del carcere. Il Risorgimento, Editori Riuniti, Roma 1971, p. 70

 

Finché le classi popolari rimarranno imprigionate negli schemi culturali e morali dell’ideologia dominante (quella della borghesia), non riusciranno a contrapporre a essa il proprio progetto politico. Ciò significa che per Gramsci il proletariato può aspirare a diventare 
classe dirigente soltanto conquistando quell’egemonia culturale che è appannaggio della 
borghesia e che quest’ultima protegge e conserva grazie all’opera degli «intellettuali 
organici[2]», cioè quelle figure di filosofi, letterati, artisti ecc. i quali, operando in stretta connessione con la classe al potere, offrono un sostegno alla sua ideologia e alla sua visione del 
mondo. Il proletariato deve attirare dalla sua parte gli «intellettuali tradizionali[3]», cioè quelli che si dichiarano indipendenti e autonomi rispetto al gruppo sociale dominante 
e si richiamano ai valori della tradizione, e nello stesso tempo deve formare una sua classe 
di intellettuali organici, di scrittori, artisti, studiosi che, in sintonia con le esigenze 
del popolo, ne sappiano interpretare le istanze e le aspirazioni.

 

Il «moderno principe»

Per Gramsci il ruolo degli uomini di cultura è dunque fondamentale. Essi devono diventare l’anima del Partito comunista, il quale ha il dovere di formarli e sostenerli; il loro compito è di sviluppare nel proletariato quella coscienza di classe che non può 
insorgere spontaneamente ed è peraltro continuamente messa a repentaglio dalla propaganda e dalle lusinghe della cultura egemone, in grado di offrire un’immagine mistificata della realtà, attirando nelle maglie del consumismo, della competizione sociale, dell’etica individualistica ed egoistica gli stessi lavoratori.

Riflettendo sulle caratteristiche e sul ruolo del partito, Gramsci riprende il pensiero di Machiavelli, affermando che il Partito comunista rappresenta «il moderno principe», capace di coinvolgere e associare alla propria causa le personalità del mondo culturale al fine di ottenere il consenso della società civile.

Il Partito comunista, però, per esercitare la sua direzione sull’intera società deve costruire un nuovo blocco storico, alternativo a quello della borghesia. E qui si innesta l’altro grande tema di cui Gramsci si occupa con passione: la questione meridionale. Il proletariato potrà diventare classe dirigente e dominante se riuscirà a creare un’alleanza tra gli operai del Nord e la maggioranza della popolazione lavoratrice italiana, cioè le masse contadine povere e diseredate del Sud. Solo in questo modo sarà possibile abbattere il blocco agrario-industriale che domina in Italia e sconfiggere l’egemonia culturale esercitata dalla Chiesa cattolica e dalla borghesia. Il filosofo 
accusa il Partito socialista di non aver capito questo aspetto importante della situazione politica italiana e di aver addirittura avallato alcune teorie sull’inferiorità delle 
masse meridionali.

 

  1. La via cinese al comunismo

Mao fu promotore di una “cinesizzazione” del marxismo, in ambito ideologico e pratico, che avvenne in due momenti principali: nella prima guerra civile cinese (prima e durante la Lunga Marcia del 1935) e nella seconda metà degli anni cinquanta, con la Campagna dei cento fiori e il Grande balzo in avanti che segnarono l’inizio della scissione nel blocco comunista.

Negli anni venti e trenta (periodo della prima guerra civile, delle esperienze dei soviet nel sud della Cina e della costruzione del partito comunista) Mao sostenne il ruolo della classe contadina nella rivoluzione, in contrasto con il marxismo classico e con gli agenti del Comintern, che volevano appoggiarsi al proletariato cittadino. La riforma agraria e la ridistribuzione delle terre erano considerate il punto principale della rivoluzione. Di fatto, il proletariato urbano era molto esiguo, al contrario dell’enorme massa di contadini oppressi dai proprietari terrieri e dai signori della guerra. La teoria maoista era strettamente connessa alla pratica militare: una sua massima recitava “Il potere politico viene dalla canna del fucile“.

Mentre Mosca promuoveva una guerra di posizione classica, Mao puntava sulla guerra di popolo e la guerriglia di movimento, secondo una strategia in tre fasi: mobilitazione e organizzazione dei contadini, creazione di basi rurali (soviet) e truppe di guerriglieri, transizione verso una guerra più convenzionale. L’alternarsi di successi e soprattutto di sconfitte, che portarono alla ritirata della Lunga Marcia nel 1935, alimentarono i contrasti fra Mao e Mosca. Durante la Lunga Marcia, Mao conquistò la leadership a scapito dei sostenitori di Mosca (i “28 bolscevichi”, Li Li San, Wang Meng, Otto Braun, Borodin). Nella seconda guerra civile, la strategia militare maoista si rivelò vincente e assicurò a Mao la presa del potere nel 1949.

Dopo una prima fase di collaborazione con l’URSS negli anni Cinquanta, la destalinizzazione segnò l’inizio della rottura con Mosca. Mao non rinnegò mai Stalin, considerandolo un marxista-leninista genuino, ma accusò Nikita Kruscev, in qualità di revisionista, di ripristinare il capitalismo attraverso la “coesistenza pacifica” fra le classi sociali (proletariato e borghesia) e fra il blocco comunista e l’Occidente.

Mao si propose come erede e continuatore teorico dell’ideologia marxista-leninista, al seguito di Marx, Engels, Lenin e Stalin. Mao Zedong definisce contraddizioni antagoniste le contraddizioni di classe del marxismo classico fra proletariato e borghesia da cui origina la Rivoluzione proletaria e afferma che, dopo la rivoluzione socialista, permangono ancora contraddizioni non antagoniste o contraddizioni in seno al popolo. Queste sarebbero in grado di restaurare il capitalismo e possono essere risolte attraverso il dialogo e la lotta di classe non violenta. I russi negano l’esistenza di contraddizioni di classe nella società transitoria socialista. In altre parole, Mao riteneva che nella società socialista e all’interno dello stesso partito, esistessero forze di natura borghese capaci di minacciare la rivoluzione e restaurare il sistema di corruzione e nepotismo, tradizionalmente cinese.

Anche dal punto di vista economico Mao cercò un percorso originale, che portò alla politica del Grande balzo in avanti, caratterizzato dalla mobilitazione delle masse contadine a scopi produttivi e militari, onde creare un tessuto di forze autosufficienti e dislocate impermeabile agli attacchi delle grandi potenze (la Cina si sentiva minacciata sia dagli Stati Uniti d’America che dall’URSS, entrambi i paesi dotati di enormi arsenali nucleari). Questa manovra economica portò a risultati fallimentari e fu uno dei motivi che spinse l’apparato di partito a esautorare progressivamente il presidente Mao della sua posizione dirigenziale.

L’evento politico che portò più di tutti il maoismo a crescere in tutto il mondo fu la Grande rivoluzione culturale proletaria, un periodo di intenso conflitto interno alla Cina iniziato nel 1966 e definitivamente concluso con la morte di Mao dieci anni dopo. La Rivoluzione culturale consistette in un’enorme mobilitazione di masse popolari guidate dalle avanguardie degli studenti che aveva come obiettivo quello di combattere i controrivoluzionari presenti nella burocrazia del partito, rea in particolare di aver estromesso Mao dal potere politico. Questo evento portò il maoismo a diventare punto di riferimento politico e ideologico nel mondo, grazie soprattutto alla spinta della contestazione globale del Sessantotto che prese la Rivoluzione culturale come modello dell’antirevisionismo e dell’antimperialismo.

Gran parte dei partiti maoisti di oggi aderisce all’interpretazione di Lin Biao: «Il pensiero di Mao Zedong è il marxismo-leninismo dell’epoca in cui l’imperialismo va incontro alla disfatta totale e il socialismo avanza verso la vittoria di tutto il mondo».

 


 

  1. Partito comunista e rivoluzione nel dibattito marxista del Novecento

Questo percorso analizza alcuni testi di importanti seguaci del marxismo. Gli autori considerati sono Lenin, Rosa Luxemburg e Gramsci; la loro riflessione si incentra rispettivamente sulla concezione dello Stato nella sua relazione con la società civile, sulla guerra, intesa come conflitto imperialistico connaturato al capitalismo, e sul ruolo del partito nella formazione della coscienza di classe del proletariato.

 

Lenin: la democrazia come forma dello Stato borghese

La posizione di Lenin sullo Stato matura in stretta connessione con gli avvenimenti rivoluzionari in Russia di cui egli è protagonista. Il suo libro intitolato Stato e rivoluzione è del 1917 e dimostra la consapevolezza della centralità di tale questione. Nella Prefazione 
l’autore infatti scrive:

 

Il problema dello Stato assume ai nostri giorni una particolare importanza, sia dal punto
di vista teorico che dal punto di vista politico pratico. La guerra imperialista [il riferimento è 
alla Prima guerra mondiale] ha accelerato e acutizzato a un grado estremo il processo di trasformazione del capitalismo monopolistico in capitalismo monopolistico di Stato. L’oppressione mostruosa delle masse lavoratrici da parte dello Stato, il quale si fonde sempre più strettamene con le onnipotenti associazioni dei capitalisti, acquista proporzioni sempre più mostruose. I paesi più avanzati si trasformano [ … ] in case di pena militari per operai.

Gli inauditi orrori e flagelli di una guerra civile di cui non si vede la fine rendono insostenibile la situazione delle masse, aumentano la loro indignazione. La rivoluzione proletaria internazionale matura in modo visibile, e il problema del suo atteggiamento verso lo Stato assume un significato pratico.

  1. I. Lenin, Stato e rivoluzione. La dottrina marxista dello Stato e i compiti del proletariato nella rivoluzione,

a cura di V. Gerratana, Editori Riuniti, Roma 1970, p. 55

 

Seguendo da vicino le posizioni di Marx, Lenin auspica la partecipazione temporanea delle masse alla vita dello Stato prima della sua estinzione definitiva. Come Marx, infatti, anche Lenin riconosce che il superamento dello Stato borghese deve avvenire attraverso una fase transitoria di «dittatura del proletariato»; fase che verrà
oltrepassata nella società comunista, in cui non ci sarà più bisogno dell’apparato statale. A differenza di Marx, però, Lenin pensa che non sia possibile realizzare la dittatura del proletariato attraverso un’organizzazione che riunisca tutta la classe operaia: tale fase deve essere gestita e guidata da un’avanguardia del movimento operaio, cioè dalle sue personalità più evolute e consapevoli confluite nel Partito comunista. Quest’ultimo assume dunque per lui un ruolo egemone, avendo il compito di 
indicare la linea alla massa degli operai e di favorire «dall’esterno» la nascita della sua coscienza di classe.

Il brano che segue è tratto da Stato e rivoluzione. In esso si considera la democrazia come il riconoscimento sul piano astratto del principio dell’uguaglianza di tutti i cittadini: facendo leva su questo assunto, Lenin afferma che la classe operaia deve abbattere la classe degli sfruttatori e compiere la propria rivoluzione.

 

da Lenin, Stato e rivoluzione

La democrazia è una forma dello Stato, una delle sue varietà. Essa è quindi, come ogni Stato, l’applicazione organizzata, sistematica, della costrizione agli uomini. Questo, da un lato. Ma dall’altro lato, la democrazia è il riconoscimento formale dell’uguaglianza fra i cittadini, del diritto uguale per tutti di determinare la forma dello Stato e di amministrarlo. Ne deriva che, a un certo grado del suo sviluppo, la democrazia in primo luogo unisce contro il capitalismo la classe rivoluzionaria, il proletariato, e gli dà la possibilità di spezzare, di ridurre in frantumi, di far sparire dalla terra la macchina dello Stato borghese, anche se borghese repubblicano, l’esercito permanente, la polizia, la burocrazia, e di sostituirli con una macchina più democratica, ma che rimane tuttavia una macchina statale, costituita dalle masse operaie 
armate, e poi da tutto il popolo che partecipa alla milizia[4].

Qui la «quantità si trasforma in qualità»; arrivata a questo grado, il sistema
democratico esce dal quadro della società borghese e comincia a svilupparsi verso 
il socialismo. Se tutti gli uomini partecipano realmente alla gestione dello Stato, il capitalismo non può più mantenersi. E lo sviluppo del capitalismo crea a sua volta le premesse necessarie a che «tutti» effettivamente possano partecipare alla gestione dello Stato. Queste premesse sono, tra l’altro, l’istruzione generale, già realizzata in molti paesi capitalistici più avanzati, poi l’«educazione e l’abitudine alla disciplina» di milioni di operai per opera dell’enorme e complesso apparato socializzato delle poste, delle ferrovie, delle grandi officine, del grande commercio, delle banche, ecc[5].

V.I. Lenin, Stato e rivoluzione. La dottrina marxista dello Stato
e i compiti del proletariato nella rivoluzione,

cit., pp. 176-177

 

L’opposizione alla guerra imperialista in Rosa Luxemburg

Il brano che segue è tratto dagli Scritti politici di Rosa Luxemburg, una delle principali esponenti della sinistra socialdemocratica tedesca. In esso si può cogliere un punto fondamentale del suo pensiero: la centralità della classe operaia 
come nuovo soggetto di diritti politici, oltre che economici, in una fase di espansione del capitalismo che definisce «imperialismo». A quest’ultimo concetto la pensatrice dedica gran parte della sua riflessione, arrivando a elaborare una teoria originale ancora oggi oggetto di studio e di attenzione. Secondo lei in una società 
capitalistica, composta cioè esclusivamente da coloro che detengono i mezzi di produzione e dai proletari, che ne sono privi, l’accumulazione del capitale non è possibile indefinitamente: infatti, venendo a un certo punto a mancare «la 
domanda» per la parte di merci prodotte in più dai lavoratori salariati, a causa della povertà di questi, viene meno la possibilità di creare plusvalore e quindi di 
ottenere profitti.

Da questa circostanza, secondo Rosa Luxemburg, deriva la necessità per l’economia capitalista di cercare al di fuori nuovi acquirenti per le proprie merci, cioè di condurre una politica di espansione imperialistica che porta, inevitabilmente, alla guerra tra potenze capitalistiche in cerca di nuovi mercati. In questa prospettiva, il militarismo viene ad assumere un significato non solo politico, ma anche economico, in quanto diventa uno strumento per la realizzazione di plusvalore, «un campo di accumulazione», risultando indispensabile al capitalismo stesso, sebbene rappresenti anche la sua ultima fase: quando infatti non esisteranno più “terre di conquista”, l’accumulazione che è necessaria al sistema di produzione capitalistico non sarà più possibile ed esso sarà destinato a naufragare; momento che, peraltro, secondo Luxemburg verrà anticipato dalla rivoluzione proletaria su scala mondiale, sollecitata dall’esasperato antagonismo tra le classi e dal disordine politico ed econonomico creato dal sistema dello sfruttamento internazionale.

Nel brano che proponiamo emerge in primo piano l’opposizione della pensatrice alla Prima guerra mondiale, che ella considera un esempio di «guerra imperialista» e che reputa una sciagura per la classe operaia, a differenza di altri esponenti del 
partito che la consideravano un’occasione per accelerare la crisi del sistema capitalistico, aprendo la strada alla rivoluzione socialista.

 

da Luxemburg, I compiti della socialdemocrazia

La guerra mondiale non serve alla difesa nazionale né agli interessi economici o politici di una qualunque massa popolare, ma è puramente un prodotto di rivalità imperialistiche tra le classi capitalistiche dei diversi paesi per l’egemonia mondiale e per il monopolio nel dissanguamento e nell’oppressione dei territori non ancora dominati dal capitale. Nell’era di questo imperialismo scatenato non possono più 
esistere guerre nazionali. Gli interessi nazionali servono soltanto ad ingannare le masse popolari per asservirle alloro nemico mortale, l’imperialismo.

Dalla politica degli Stati imperialisti e dalla guerra imperialistica non può scaturire libertà e indipendenza per nessuna nazione oppressa. Le piccole nazioni, le cui classi dirigenti sono appendici e complici dei loro compagni di classe dei grandi Stati, non sono altro che pedine nel gioco imperialistico delle grandi potenze e durante la guerra si abusa di loro come delle rispettive masse lavoratrici, come di strumenti, per sacrificarle dopo la guerra agli interessi capitalistici[6].

In queste circostanze la guerra mondiale odierna, chiunque sia il vincitore o il vinto, rappresenta una sconfitta del socialismo e della democrazia. Qualunque sia l’esito – escluso l’intervento rivoluzionario del proletariato internazionale – essa conduce a un rafforzamento del militarismo, degli antagonismi internazionali, delle rivalità economiche. Essa accresce lo sfruttamento capitalistico e la reazione nella politica interna, indebolisce il pubblico controllo e degrada i parlamenti a strumenti 
sempre più obbedienti del militarismo. La guerra mondiale odierna sviluppa così nello stesso tempo tutte le premesse per nuove guerre[7].

La pace mondiale non può essere assicurata con piani utopistici o a base reazionaria, come tribunali arbitrali internazionali dei diplomatici capitalistici, accordi diplomatici di «disarmo», «libertà dei mari», abolizione del diritto di preda marittima, «federazione degli Stati europei», «unione doganale medioeuropea», Stati nazionali
cuscinetto et similia. Imperialismo, militarismo e guerre non si potranno evitare o arginare finché le classi capitalistiche eserciteranno indisturbate il loro predominio 
di classe. L’unico mezzo di oppor loro vittoriosa resistenza e l’unica certezza di pace 
mondiale sta nella capacità politica di azione e nella volontà rivoluzionaria del proletariato internazionale, di gettare sulla bilancia la sua forza[8].

L’imperialismo, come ultima fase vitale e come la più alta estrinsecazione del- 
l’egemonia politica mondiale del capitale, è il nemico mortale comune del proletariato di tutti i paesi. Ma esso divide anche con le fasi precedenti del capitalismo il destino di accrescere le forze del suo nemico mortale nella stessa misura in cui 
sviluppa se stesso. Esso accelera la concentrazione del capitale, lo sbriciolamento del medio ceto, l’incremento del proletariato, risveglia la resistenza crescente 
delle masse e conduce così all’inasprimento intensivo degli antagonismi di classe. In prima linea contro l’imperialismo dev’essere concentrata, in pace come in guerra, la lotta di classe proletaria. La lotta contro l’imperialismo per il proletariato 
internazionale è al tempo stesso la lotta per il potere politico nello Stato, la spiegazione decisiva tra socialismo e capitalismo. Lo scopo finale socialista sarà realizzato dal proletariato internazionale soltanto facendo fronte su tutta la linea contro l’imperialismo ed elevando la parola d’ordine «guerra alla guerra» a norma 
direttiva della sua politica pratica, dedicandovi tutte le sue forze e il massimo spirito di sacrificio.

A questo scopo oggi il compito principale del socialismo consiste nel radunare il proletariato di tutti i paesi in una forza rivoluzionaria vivente, e farne, mediante 
una potente organizzazione internazionale con una comprensione unitaria dei suoi interessi e dei suoi compiti, con una tattica e una capacità politica di azione unitarie in pace come in guerra, un fattore decisivo della vita politica, compito al quale è chiamato dalla storia.

La Seconda Internazionale è saltata in aria con la guerra. La sua insufficienza si è dimostrata nell’incapacità di mettere un argine efficace al proprio frazionamento 
nazionale nel corso della guerra e di realizzare una tattica ed azione comune del 
proletariato in tutti i paesi[9].

  1. Luxemburg, I compiti della socialdemocrazia,

in Scritti politici, 
a cura di L. Basso, Editori Riuniti, Roma 1967, pp. 548-550

 


 

Gramsci: il ruolo degli intellettuali nella società civile

Proponiamo un testo che sintetizza in modo efficace il pensiero di Gramsci sull’importanza dell’educazione culturale e del ruolo degli intellettuali nella 
società civile. Si tratta di una prospettiva che, pur all’interno della tradizione marxista-leninista, fa di Gramsci un pensatore attento a cogliere gli elementi di novità della 
complessa società del Novecento, in cui il problema della politica e dello Stato si 
pone in termini del tutto differenti rispetto all’Ottocento.

 

da Gramsci, Quaderni del carcere

Una delle caratteristiche più rilevanti di ogni gruppo che si sviluppa verso il dominio è la sua lotta per l’assimilazione e la conquista “ideologica” degli intellettuali tradizionali, assimilazione e conquista che è tanto più rapida ed efficace quanto più il gruppo dato elabora simultaneamente i propri intellettuali organici.

L’enorme sviluppo preso dall’attività e dall’organizzazione scolastica (in senso largo) nelle società sorte dal mondo medioevale indica quale importanza abbiano 
assunto nel mondo moderno le categorie e le funzioni intellettuali: come si è cercato di approfondire e dilatare l”’intellettualità” di ogni individuo, così si è anche cercato di moltiplicare le specializzazioni e di affinarle. Ciò risulta dalle istituzioni scolastiche di diverso grado, fino agli organismi per promuovere la così detta “alta cultura”, in ogni campo della scienza e della tecnica[10].

La scuola è lo strumento per elaborare gli intellettuali di vario grado. La complessità della funzione intellettuale nei diversi stati si può misurare obiettivamente dalla quantità delle scuole specializzate e dalla loro gerarchizzazione: quanto più estesa è l”‘area” scolastica e quanto più numerosi i “gradi verticali” della scuola, tanto più è complesso il mondo culturale, la civiltà, di un determinato Stato. Si può avere un termine di paragone nella sfera della tecnica industriale: l’industrializzazione di un paese si misura dalla sua attrezzatura nella costruzione di macchine per costruire macchine e nella fabbricazione di strumenti sempre più 
precisi per costruire macchine e strumenti per costruire macchine ecc. Il paese che ha la migliore attrezzatura per costruire strumenti per i gabinetti sperimentali degli scienziati e per costruire strumenti per collaudare questi strumenti, si può dire il più complesso nel campo tecnico-industriale, il più civile, ecc. Così è nella 
preparazione degli intellettuali e nelle scuole dedicate a questa preparazione; scuole e istituti di alta cultura sono assimilabili. Anche in questo campo la quantità non può scindersi dalla qualità. Alla più raffinata specializzazione tecnico-culturale non può non corrispondere la maggiore estensione possibile della diffusione dell’istruzione primaria e la maggiore sollecitudine per favorire i gradi intermedi al più gran numero[11].

  1. Gramsci, Per una storia degli intellettuali,
in Quaderni del carcere, Editori Riuniti, Roma 1971, pp. 18-19

 

Il Libretto Rosso di Mao Zedong

Il libretto Rosso è diviso in 33 capitoli ciascuno dei quali porta un titolo che ne indica l’argomento: prendiamo in esame sinteticamente l’opera, capitolo per capitolo.

da Mao Zedong, Libretto rosso

I – Il Partito Comunista

Delinea il ruolo del PC comunista:

Il nucleo dirigente della nostra causa è il Partito comunista cinese. Per fare la rivoluzione, occorre un partito rivoluzionario. Il Partito comunista cinese costituisce il nucleo dirigente dell’intero popolo cinese. Un partito disciplinato, armato della teoria marxista-leninista,

e la funzione essenziale e indispensabile:

Il Partito comunista cinese costituisce il nucleo dirigente dell’intero popolo cinese. Senza un simile nucleo, la causa del socialismo non riuscirebbe a trionfare.

Si afferma l’idea del movimento comunista internazionale che la rivoluzione non può essere opera spontanea delle masse ma che esse debbano essere guidate da un partito formato da “professionisti della rivoluzione” che in realtà è la base teorica della soppressione della libertà in tutti i paesi del socialismo reale

II – Le classi e la lotta di classe

Si prende in esame la lotta di classe che viene considerata, secondo il pensiero marxista, l’unico vero motore della storia:

Lotta di classe – certe classi sono vittoriose, altre vengono eliminate. Questa è la storia, la storia delle civiltà, da millenni. Interpretare la storia da questo punto di vista è quel che si dice materialismo storico;

Si afferma l’internazionalismo proletario perchè:

La lotta nazionale è in ultima analisi una lotta di classe nel senso che la liberazione della Cina in in effetti corrisponde alla liberazione delle masse degli sfruttati.

La liberazione che deve venire in una azione violenta secondo il famosissima brano:

… la rivoluzione non è un pranzo di gala, non è una festa letteraria, non è un disegno o un ricamo; non si può fare con tanta eleganza, con tanta serenità e delicatezza, con tanta grazia e cortesia. La rivoluzione è un atto di violenza, è l’azione implacabile di una classe che abbatte il potere di un’altra classe.

Ma la vittoria militare non significa vittoria finale perchè:

Occorrerà ancora un periodo di tempo abbastanza lungo per decidere il risultato della lotta ideologica tra il socialismo e il capitalismo nel nostro paese. La ragione di ciò sta nel fatto che l’influenza della borghesia e degli intellettuali che provengono dalla vecchia società continuerà ancora a lungo nel nostro paese, così come la loro ideologia di classe. Nel nostro paese, l’ideologia borghese e piccolo borghese, le idee antimarxiste sussisteranno ancora a lungo.

Occorre quindi una lotta dopo l’instaurazione della dittatura del proletariato: la qualcosa poi giustificò la violenta repressione verso intere classi sociali e chiunque sembrasse in qualche modo ancora partecipe della cultura borghese e feudale.
Vengono quindi denunciati i mali del dogmatismo e del revisionismo:

il dogmatismo e il revisionismo si contrappongono entrambi al marxismo.

Il ripudio del dogmatismo permette di modificare la teoria marxista ogni volta che il potere lo ritenga necessario pur affermando che…

Tuttavia, non si possono infrangere i principi fondamentali del marxismo senza cadere nell’errore.

Ma sarà poi il partito decidere quali essi siano ma il maggior pericolo, il maggiore nemico è il revisionismo:

I revisionisti o opportunisti di destra approvano il marxismo a parole e attaccano a loro volta il “dogmatismo.” Ma di fatto, i loro attacchi mirano alla sostanza stessa del marxismo.

Il che significa che anche quelli che si dichiaravano comunisti e da sempre avevano combattuto per esso potevano essere etichettati come opportunisti di destra o dogmatici come, analogamente, in Russia si parlava di gruppi antipartito, di deviazionismo di destra o di sinistra.

VI – L’imperialismo e tutti i reazionari sono tigri di carta

Il titolo è una delle più famose affermazione di Mao che allora fu considerata estremamente preoccupante: ma è giustificata appieno dalla sua concezione, infatti:

Tutti i reazionari sono tigri di carta. Apparentemente sono terribili, ma in realtà non sono poi tanto potenti.

Questo perché nell’ottica marxista le forze produttive che li avevano supportate sono cambiate:

In passato, la classe dei proprietari di schiavi, la classe feudale dei proprietari fondiari e la borghesia furono, prima della loro conquista del potere e per un certo periodo successivo, pieni di vitalità, rivoluzionarie e progressiste; erano vere tigri. Ma nel periodo successivo, mentre i loro antagonisti – le classi degli schiavi, i contadini e il proletariato – si facevano maturi e impegnavano la loro lotta contro di esse, una lotta vieppiù violenta, quelle classi dominanti si sono trasformate a poco a poco nel loro contrario, e sono diventate reazionarie, retrograde, tigri di carta.

E anzi più essi combattono il popolo, più si avvicina la loro sconfitta:

Un proverbio cinese definisce l’azione di certi sciocchi dicendo che “essi sollevano una pietra per lasciarsela cascare sui piedi”. I reazionari di tutti i paesi sono precisamente degli sciocchi di questo genere. Le repressioni di ogni sorta che essi mettano in atto contro il popolo rivoluzionario non possono altro, in definitiva, che spingere il popolo a intensificare la rivoluzione.

XXIV – Autoeducazione ideologica

Si riferisce soprattutto all’importanza di subordinare la parte al tutto, di seguire le esigenze generali e non quelle proprie come invece si fa nel liberalismo:

Nelle collettività rivoluzionarie il liberalismo è estremamente dannoso. E’ un corrosivo che distrugge l’unità, che mina la solidarietà, che induce alla passività e crea disaccordo. Esso priva le file rivoluzionarie di compattezza nell’organizzazione e di severità nella disciplina, si oppone a che le nostre direttive politiche siano integralmente applicate e separa le organizzazioni del partito dalle masse che esse dirigono. E’ una tendenza estremamente pericolosa.

da cui si deduce l’importanza di non allontanarsi dalle decisioni del partito

Il malinteso spirito “d’indipendenza” é, di solito, inseparabile della tendenza a mettere il proprio “io” in primo piano. I suoi esponenti di solito affrontano in modo sbagliato la questione dei rapporti tra l’individuo e il Partito. A parole, anch’essi rispettano il Partito, ma nella realtà essi pongono la loro persona in primo piano e il Partito in secondo.

XXV – L’unità

Capitolo molto breve in cui si ribadisce l’importanza dell’unità:

Soltanto attraverso l’unità del Partito comunista si può ottenere l’unità di tutta la classe e di tutta la nazione; soltanto con l’unità di tutta la classe e di tutta la nazione si può vincere il nemico e portare a termine la rivoluzione nazionale e democratica.

XXVI – La disciplina

Si enuncia il principio del centralismo democratico, cardine di tutti i partiti comunisti storicamente costituiti:

In seno al popolo, la democrazia è correlativa al centralismo, alla libertà e alla disciplina. Sono due aspetti contraddittori di un tutto unico; sono in contraddizione, ma nello stesso tempo uniti, e noi non dobbiamo sottolineare unilateralmente uno degli aspetti e negare l’altro. In seno al popolo, non si può fare a meno di libertà, ma neanche fare a meno di disciplina; non si può fare a meno di democrazia, ma neanche si può fare a meno di centralismo. Questa unità della democrazia e del centralismo, della libertà e della disciplina costituisce il nostro centralismo democratico. Sotto un tale regime, il popolo gode di una democrazia e di una libertà ampie, ma nello stesso tempo deve stare nei limiti della disciplina socialista.

In concreto però si afferma una concezione autoritaria e fortemente gerarchica

Bisogna riaffermare la disciplina del Partito, e cioè:

  1. sottomissione dell’individuo all’organizzazione;
2. sottomissione della minoranza alla maggioranza;
3. sottomissione del grado inferiore al grado superiore;
4. sottomissione dell’insieme del Partito al Comitato centrale. Chiunque viola queste regole di disciplina sabota l’unità del Partito.

 

  1. Gli spettri di Marx

Nel brano seguente lo studioso Diego Fusaro, ricollegandosi alle analisi del pensatore francese contemporaneo 
Jacques Derrida (1930-2004). riconosce l’attualità di Marx, cioè il fatto che, nonostante il crollo del socialismo 
reale e dei «marxismi». gli «spettri» del pensatore di Treviri continuano ad aggirarsi per il mondo contemporaneo, 
spaventando molti suoi detrattori. Il motivo è che il fallimento delle sue profezie non intacca l’esattezza 
delle denunce da lui formulate, e la sua critica radicale del capitalismo rappresenta ancora «lo strumentario concettuale più forte» per interpretare la società presente e le contraddizioni che la permeano. Inoltre, come 
dice l’autore del saggio, il progetto di Marx «continua a essere – dopo tutto – la più seducente promessa di felicità di cui la filosofia moderna sia stata capace».

 

Uno spettro si aggira per il mondo: lo spettro di 
Karl Marx. Uniti nella caccia spietata a questo 
spettro terrifico, gli araldi di un capitalismo che si 
avvia rapidamente ad assumere una nuova, inaspettata struttura imperiale, non fanno che annunciare instancabilmente, in una litania fin troppo nota, che
«Marx è morto» e che il suo pensiero è, nell’attuale momento storico, un ferrovecchio che può tranquillamente essere archiviato […]. Spia che segnala la morte di Marx sarebbe anzitutto – si dice – il totale fallimento delle sue previsioni, che non solo non si sono avverate, ma si sono puntualmente capovolte nel loro opposto: la religione gode di ottima salute, il sistema capitalistico prolifera e conquista sempre nuovi territori […], l’uomo è più che mai lontano dalla realizzazione della sua «essenza di genere» 
[…]. Nella lunga lista degli insuccessi di Marx, i suoi detrattori non hanno remore ad aggiungere le efferate dittature spuntate nei Paesi del mondo che hanno assunto come punto di riferimento la sua dottrina; il pensiero marxiano, venuto a contatto con la realtà e fattosi mondo, ha riprodotto in forma accentuata i mali che doveva sanare, determinando nuove forme di assoggettamento e di oppressione: in luogo della dittatura del proletariato, si è realizzata una dittatura sul proletariato; in luogo dell’estinzione dello Stato, si è attuata un’inedita forma 
di statalismo repressivo e autoritario […]; l’antipatia marxiana per il livellamento sociale forzato e nemico del «libero sviluppo dell’individualità» ha adottato la forma opposta di un egualitarismo imposto dall’alto e tale da azzerare la libertà dell’individuo. […] Senza operare alcuna distinzione tra il 
pensiero originario di Marx e il marxismo successivo, ci si limita quasi sempre ad assumere ideologicamente il fallimento storico del secondo come prova inconfutabile del fallimento teorico del primo […]. «Marx è morto»: questo lo slogan che si continua a ripetere in forma maniacale nell’attuale momento storico, e Jacques Derrida, in Spettri di Marx (1993), il libro forse più profondo e acuto dedicato al pensatore di Treviri dopo la caduta del muro di Berlino, ha messo bene in luce come dietro tale litania funebre, che a tutta prima parrebbe la 
presa di coscienza di un decesso, si nasconda […] 
l’auspicio che tale decesso si verifichi al più presto, nella consapevolezza che la persona in questione è
ancora viva e scomoda, e continua a seminare il panico anche nel presente. […]

Ed è da questa considerazione che bisogna muovere per riflettere su quanto sia ancora vivo o quanto sia morto, attualmente, di Marx o, per dirla à la Derrida, quali siano gli spettri di Marx che continuano ad aggirarsi tra noi anche oggi che il «socialismo reale» è affondato e che nessuno sembra più interessarsi al pensiero marxiano: Derrida sosteneva, molto opportunamente, che gli intramontabili spettri di Marx, «che non bisogna cacciare, ma scernere, criticare, tenere presso di sé e lasciar venire», sono la critica radicale del reale (critica che si manifesta anche sotto forma di smascheramento delle «ideologie» legittimanti dello status qua) e una speranza nell’avvenire, capace di mettere in moto 
l’azione in grado di far trovare cittadinanza nella 
realtà a quella speranza. […] Di qui la grande sfida che Marx è in grado di lanciare ancora oggi, contro 
ogni istanza adattiva e conservatrice: il presente, 
per quanto opaco e immutabile possa apparire, non 
è eterno, ma è destinato a tramontare […]. Non meno di quelle che l’hanno preceduta, l’età capitalistica è un destino e insieme ha un destino. A questa 
idea si accompagna quella, anch’essa presente in Marx, secondo la quale il tipo di esistenza capitalistico non è l’unico possibile, e non è nemmeno il migliore, se solo ci si addentra nel «laboratorio segreto» del capitale e lo si considera per quello che esso è realmente; una forma di assoggettamento alla quarta potenza (dell’uomo all’uomo, alla macchina, alla natura, alla merce) e tale da coinvolgere anche la sfera delle idee, creando una sorta di assuefazione per cui il capitalismo diventa irrinunciabile come l’aria che respiriamo e paralizza ogni spinta 
critica e forma di resistenza. […]

Ma, proprio perché ci troviamo ancora nel bel 
mezzo di questo modo di produzione, il pensiero di Marx, nella sua inossidabile aderenza alla realtà, continua a costituire una bussola per orientarsi nella babele dell’odierno panorama storico, nel quale 
gran parte dei problemi da lui individuati non sono 
stati risolti e anzi si presentano in forma ancora più 
acuta […]. In questo senso, nonostante il venire meno del marxismo e dei comunismi, Marx continua a essere, paradossalmente, un nostro contemporaneo ed è per questo motivo che, se non ha alcun senso voler nostalgicamente tornare a Marx, può tuttavia avere un senso ripartire da Marx. Lo esige anche il fatto che il mondo da lui sottoposto a critica è – nonostante i mutamenti radicali e le novità succedutesi con grande rapidità – il nostro mondo, il mondo del «modo di produzione capitalistico», in cui la produzione assume la forma di una gigantesca macchina autoreferenziale e finalizzata a obiettivi del tutto irrazionali quali la produzione di 
merci e la valorizzazione del valore fini a se stessi. 
[…] Fino a quando sopravviverà il «modo di produzione capitalistico» lo spettro di Marx continuerà ad aggirarsi per il mondo, tra le rovine della storia, poiché egli, meglio di ogni altro, ne ha decriptato i 
meccanismi, le contraddizioni, il carattere transeunte, la libertà soltanto apparente[12].

  1. Fusaro, Bentornato Marx! Rinascita di un pensiero rivoluzionario, Bompiani, Milano 2009, pp. 7-19 passim

 

[1] Con questa espressione l’autore indica la direzione intellettuale, morale e culturale della società assunta da parte di un gruppo o di una classe. Secondo lui, nei paesi occidentali l’egemonia culturale della borghesia è rimasta decisamente preponderante rispetto a quella del proletariato, che deve attivarsi per abbatterla.

[2] Sono quelle figure di filosofi, letterati, artisti, ecc. i quali, operando in stretta connessione con una determinata classe emergente o dominante, offrono un sostegno alla sua ideologia e alla sua visione del mondo.

[3] Sono quegli uomini di cultura che, richiamandosi ai valori della tradizione, svolgono la loro attività intellettuale in modo indipendente e autonomo rispetto all’ideologia del gruppo sociale dominante.

[4] Secondo Lenin la democrazia è solo una delle possibili forme statali, che sono tutte, analogamente, dittature di una classe sull’altra, in questo caso della maggioranza sulla minoranza. In un altro senso, la democrazia è quella forma di organizzazione statale che ammette a suo fondamento il principio dell’uguaglianza di tutti i cittadini, chiamati a esprimere la propria preferenza in libere elezioni. Tale uguaglianza, però, non è un principio di giustizia reale, ma solo un’enunciazione «formale», in quanto alla parità dei cittadini di fronte alla legge non equivale la loro uguaglianza sul piano delle condizioni economiche e sociali. Proprio l’ingiustizia di fondo che permane nella società democratica borghese fa maturare la coscienza rivoluzionaria della classe operaia, la quale deve unirsi con l’obiettivo di abbattere tutte le istituzioni repressive della società capitalista, la sua «macchina» statale, a partire dall’esercito per arrivare alla polizia e alla burocrazia. Prima di distruggerla, il proletariato dovrà appropriarsi di tale «macchina statale», affidando la sua guida 
alla massa degli operai armati, che eserciterà una propria dittatura al fine di traghettare la società 
verso il comunismo.

[5] Secondo Lenin, con la dittatura del proletariato si comincia davvero a uscire dagli schemi e dalle formule dello sfruttamento borghese capitalistico, per avviarsi verso la creazione di una nuova società comunista, che presuppone la partecipazione di tutti alla gestione della cosa pubblica. Se infatti «tutti partecipano realmente alla gestione dello Stato», viene meno il principio democratico della sottomissione della minoranza alla maggioranza, principio che comporta comunque una forma di violenza e di sopraffazione. Lenin sottolinea anche come le premesse per il passaggio alla nuova forma di società siano create dallo stesso sviluppo del sistema capitalistico, il quale, fondandosi sull’uguaglianza – per quanto «formale» – dei cittadini, nelle sue espressioni più avanzate comporta una maggiore diffusione dell’istruzione scolastica e quindi permette a una larga parte della società civile di elevarsi spiritualmente elaborando una coscienza di classe. La struttura statale borghese offre inoltre strumenti fondamentali alla lotta rivoluzionaria, che, ad esempio, potrà servirsi della rete creata da milioni di lavoratori già disciplinati in organizzazioni come quelle delle
poste, delle ferrovie, delle fabbriche, del commercio, delle banche ecc. È dunque in questo senso 
che il proletariato, prima di estinguere ogni forma di Stato, dovrà servirsi della «macchina statale» 
per ottenere i suoi scopi.

[6] Secondo Rosa Luxemburg l’imperialismo, cioè la guerra di conquista rivolta a paesi economicamente più arretrati allo scopo di creare nuove colonie, è un fenomeno strettamente connesso al sistema capitalistico di produzione. Quest’ultimo, infatti, ha la necessità di aumentare «la domanda», cioè di trovare nuovi mercati, per poter accumulare plusvalore e quindi creare profitto. Le guerre che 
scoppiano tra le varie potenze capitalistiche vengono dunque interpretate da Luxemburg secondo una prospettiva che, seppure da un punto di vista più ampio, riprende il materialismo storico di Marx: 
a loro fondamento è infatti individuata una serie di interessi economici che, come dice nel brano che stiamo analizzando, non sono quelli della «massa popolare», bensì delle classi borghesi impegnate a 
contendersi il monopolio dello sfruttamento mondiale. In questo senso i cosiddetti «interessi nazionali» che vengono fatti valere dalla propaganda imperialista non esistono, sono solo finzioni inventate dalle grandi potenze per ottenere il consenso dei cittadini delle piccole nazioni, ridotte a «pedine» 
da sacrificare agli interessi del capitale.

[7] La Prima guerra mondiale è interpretata da Luxemburg come un esempio di guerra imperialista, cioè come l’espressione compiuta e inevitabile dell’economia capitalistica. AI di sotto della politica militarista non vi sono, dunque, motivi patriottici o ideali, ma soltanto gli interessi economici della 
classe borghese, in netto contrasto con i bisogni delle masse popolari. La rivalità che essa promuove, inoltre, è destinata ad acuirsi sempre di più con l’aggravarsi dello sfruttamento che instaura nei paesi conquistati e il conseguente indebolimento delle classi subordinate; indebolimento che alimenta 
l’insoddisfazione e la miseria creando le premesse per nuovi conflitti.

[8] In questo passaggio Luxemburg si dimostra scettica verso quegli organismi internazionali che dovrebbero scongiurare le guerre e promuovere la pace mondiale. Per arginare l’imperialismo, 
infatti – come già aveva detto Marx a proposito dello sfruttamento e dell’alienazione causati dal capitalismo -, non è sufficiente l’attività critica e, in questo caso, diplomatica; occorre invece modificare radicalmente il sistema di potere che ne è alla base, cioè abbattere il dominio della classe capitalistica e cambiare il modo di produzione su cui si fonda. L’unica via per ottenere la pace, quindi, eliminando alla radice la causa delle guerre imperialistiche, è la lotta rivoluzionaria del proletariato internazionale.

[9] Luxemburg definisce il sistema capitalistico come «il nemico mortale comune del proletariato di tutti i paesi». auspicando l’unione di tutti i proletari del mondo contro di esso. Tuttavia rileva il 
fatto che lo sviluppo del capitalismo comporta anche il rafforzamento della classe dei lavoratori «il suo nemico mortale»), che si accresce a causa dello sbriciolamento della classe media e acquisisce sempre più coscienza del suo ruolo. Le forze dei proletari devono dunque unirsi nella lotta contro l’imperialismo che è, insieme, lotta per la conquista del potere politico in ciascuna nazione. Alla luce
di questa riflessione, Luxemburg auspica dunque la formazione di un’organizzazione internazionale – in sostituzione della “Seconda internazionale”, fallita nel 1914 proprio per il contrasto tra gli esponenti del Partito socialdemocratico in relazione alla guerra -; un organismo che unisca e coordini i movimenti operai di tutti i paesi, guidandone l’azione rivoluzionaria.

[10] Secondo Gramsci la funzione degli intellettuali riveste una grande importanza politica, in quanto è soltanto attraverso la loro attività che diventa possibile ottenere l’«egemonia culturale» della società, cioè la sua guida morale e spirituale. Tale egemonia, secondo il filosofo, è indispensabile per 
conquistare non soltanto il «dominio» di un paese, ma anche la sua «direzione». A questo scopo egli 
distingue l’attività degli «intellettuali organici», da quella degli «intellettuali tradizionali»: i primi sono 
figure di letterati, filosofi e artisti che, operando in connessione con la classe dominante, riescono 
a conquistare il consenso della società civile; i secondi sono quegli uomini di cultura che, richiamandosi ai valori della tradizione, svolgono la loro attività intellettuale in modo indipendente e autonomo rispetto all’ideologia del gruppo sociale dominante. Gramsci ritiene che il proletariato, per 
abbattere la classe borghese dominante e diventare classe dirigente, debba conquistare l’egemonia culturale; un compito che può essere assolto, da un lato, integrando tra le proprie file gli «intellettuali 
tradizionali», dall’altro formando nuovi «intellettuali organici» solidali all’azione del Partito comunista e alla sua battaglia.

[11] Gramsci sottolinea l’importanza della scuola ai fini della formazione dei nuovi intellettuali organici. Egli constata che i paesi economicamente e industrialmente più evoluti sono proprio quelli che hanno le scuole più numerose e qualificate, in tutti gli ordini e gradi. A questo proposito fa un paragone tra l’istituzione scolastica e la realtà economica: in quest’ultima il grado di sviluppo tecnologico, la sua alta qualità e specializzazione, ma anche il numero delle realtà produttive in cui emerge sono indici del livello raggiunto dal sistema industriale di una nazione; allo stesso modo, la qualità delle scuole e la loro diffusione sul territorio sono indicative del livello culturale di un paese. 
Le due realtà, poi – quella tecnico-industriale e quella culturale – sono interconnesse. Secondo
Gramsci la formazione ideale deve comprendere sia le competenze tecnico-scientifiche sia quelle culturali e umanistiche. Il modello di intellettuale gramsciano, in un certo senso di grande attualità 
anche oggi, è quello che sa coniugare la conoscenza del latino con le indispensabili nozioni tecniche. È infatti significativo quello che Gramsci dice a proposito dello studio del latino: «il latino non si studia 
per imparare il latino; [ … ] si studia per abituare i fanciulli a studiare in un determinato modo, ad analizzare un corpo storico che si può trattare come un cadavere che continuamente si ricompone in vita, per abituarli a ragionare, ad astrarre schematicamente pur essendo capaci dall’astrazione a ricalarsi nella vita reale immediata, per vedere in ogni fatto o dato ciò che ha di generale e ciò che di particolare, il concetto e l’individuo» (Per la ricerca del principio educativo).

[12] L’autore indica alcuni gravi fraintendimenti della dottrina marxiana, operati da parte di coloro che, invocando una presunta ortodossia, hanno dato vita ai regimi comunisti. Tra questi egli cita la dittatura sul proletariato, in luogo della dittatura del proletariato; la forma di statalismo repressivo e autoritario che si è realizzata in luogo dell’estinzione dello Stato auspicata da Marx; l’egualitarismo imposto dall’alto e il livellamento sociale forzato, assolutamente contrario al «libero sviluppo dell’individualità» desiderato dal filosofo. Riflettendo su questi temi, esponi la tua idea in merito alla seguente questione: il fallimento storico del marxismo è una prova del fallimento teorico di Marx?

L’autore individua il primo degli «intramontabili spettri di Marx» nella critica radicale del reale. Concordi con 
questa valutazione? Ritieni, cioè, che gli strumenti critici forniti da Marx siano ancora utili per comprendere il 
mondo contemporaneo?

Descrivendo l’attuale sistema di produzione capitalistico, l’autore ne mette in evidenza gli aspetti negativi, che a suo avviso sono ancora peggiori di quelli individuati da Marx nella società dell’ottocento. Ti sembra che sia 
giustificata questa valutazione? Rifletti, ad esempio, sul fenomeno del «feticismo delle merci» citato nel brano e sul 
ruolo che esso ha assunto nella moderna società consumistica.

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