Teorie della razza

Teorie della razza
L’idea di razza è propria dell’Età moderna, ma trova fondamenti nel mondo antico, sia nella Bibbia che nel pensiero classico. Su una concezione medico-filosofica (Ippocrate, Aristotele) che attribuiva all’ambiente naturale un’influenza determinante sul carattere, l’intelligenza e l’aspetto fisico degli uomini, si fonda lateoria climatica, fatta propria dalla cultura scolastica medievale e dominante all’epoca delle grandi scoperte geografiche. Ma proprio gli esiti delle scoperte (trasferimenti di popolazioni, tratta degli schiavi), non meno che il nodo dell’ereditarietà, posero in crisi quella teoria, almeno nella sua accezione più rigidamente deterministica. La fine dell’unità del mondo cristiano e i progressi scientifici favorirono, fra Cinquecento e Seicento, lo sviluppo di teorie poligenetiche che spiegavano la pluralità dei caratteri fisici negando la discendenza del genere umano da Adamo e quindi da un unico atto creativo divino (come sosteneva, al contrario, la teoria monogenetica). In particolare i progressi nello studio dell’anatomia offrirono argomenti all’approccio strettamente biologico alla questio-ne della razza, perfezionato nel Settecento e nell’Ottocento con l’ausilio di nuovi criteri estetici e antropologici (dal recupero della fisiognomica alla misurazione del cranio). Ma proprio nel corso dell’Ottocento gli studi di linguistica e il nuovo corso della politica coloniale favorirono l’affermarsi di una teoria della razza fondata su fattori culturali assai più che morfologici, sulla differenza cioè fra civiltà spiritualmente (e materialmente) evolute e popoli incapaci di autogestione in quanto giudicati incivili. Il concetto di razza si incrocia allora con quello di destino dei popoli, si storicizza, si fa strumento di politiche di potenza, contraddistinguendo l’età dell’imperialismo. Nascono in quel contesto il mito della razza ariana come razza superiore (J.A. Gobineau) e il principio della conflittualità interrazziale per contrastare la mescolanza e ristabilire il principio gerarchico fra le razze. Vedi anche razzismo.

M.F. Ashley Montagu, La razza. Analisi di un mito, Einaudi, Torino 1966; G. Gliozzi, Le teorie della razza nell’Età moderna, Loescher, Torino 1986

 

Origine storica dei concetti di razza e razzismo

Sebbene l’origine della parola “razza” si faccia risalire al secolo XV (non è chiaro se provenga dal latino “generatio” oppure “ratio” nel significato di natura, qualità), lo studio delle razze umane è molto più antico.

Gli antichi Egizi, probabilmente furono i primi a tentare una classificazione delle popolazioni umane basata sul colore della pelle. Alcune parole scritte su una stele rinvenuta nel Sud dell’Egitto, risalente al XIX secolo a. C. legittimano una delle prime discriminazioni tra gli uomini, in base al colore della pelle:

“Frontiera Sud. Questo confine è stato posto nell’anno VIII del Regno di Sesostris III, Re dell’Alto e Basso Egitto, che vive da sempre e per l’eternità. L’attraversamento di questa frontiera via terra o via fiume, in barca o con mandrie, è proibito a qualsiasi nero, con la sola eccezione di coloro che desiderano oltrepassarla per vendere o acquistare in qualche magazzino”.

Il greco Erodoto (V secolo a.C.) descrisse il nome, la posizione geografica, i costumi e l’aspetto fisico di un gran numero di popoli e, nonostante alcune sue informazioni derivino da leggende o superstizioni, si può considerare il padre, non solo della storia, ma anche dell’antropologia.

Anche gli antichi Greci e Romani facevano riferimento al colore della pelle per distinguere le diverse tipologie di umani. I greci consideravano con disprezzo qualunque straniero: li chiamavano “barbari”, cioè balbettanti perché non sapevano parlare greco.

Le prime classificazioni tassonomiche si possono far risalire ad Aristotele (IV sec. a.C.).

Il naturalista Plinio il Vecchio (I sec. d.C.) diede una spiegazione delle differenze fisiche tra gli africani gli europei, pensando che fossero una conseguenza diretta del clima.

Un maggior contributo venne dato dopo che si furono accumulate sufficienti conoscenze geografiche e cioè dal Settecento, quando era anche fiorente l’interesse per la classificazione di animali e piante.

Infatti, in questo periodo, comparvero vari elenchi di razze, o varietà, ad esempio ad opera di Linneo (1707-1778) e dell’anatomista tedesco J. F. Blumenbach (1752-1840). Egli affermò che la specie umana è una sola, suddivisa in cinque varietà: caucasica, mongolica, etiopica (comprendente tutti gli africani), americana e malese (abitanti delle isole del Sud Est asiatico e della parte di Oceania allora conosciuta); riteneva, inoltre, che il colore originario della specie umana fosse il bianco. La caratteristica umana più appariscente, il colore della pelle, aveva già un ruolo dominante.

 

ESEMPI DI CLASSIFICAZIONE DELLE RAZZE

LINNEO (1758) BLUMENBACH (1781)
Homo europaeusHomo asiaticus

Homo afer

Homo americanus

CaucasicoMongolico

Malese

Etiopico

Americano

 

Il razzismo è comunque più vecchio di queste ideologie ed è probabilmente antico quanto l’umanità. Probabilmente in qualunque gruppo etnico è sempre esistito un orgoglio di gruppo che ha reso difficili i confronti obbiettivi con altri gruppi.

Si può dire che si iniziò a parlare di razzismo dal XVIII secolo, a seguito delle scoperte geografiche e del periodo di intensa colonizzazione che coinvolse l’Europa. Iniziarono, infatti, ad essere elaborate delle teorie apparentemente “scientifiche“, attraverso le quali si tentava di trovare nella genetica, la ragione dell’inferiorità sociale e la giustificazione delle imprese coloniali, compiute in nome di un “bisogno” di aiuto da parte dei popoli sottomessi.

All’inizio dell’Ottocento, furono suggeriti altri sistemi per distinguere le razze umane.

L’anatomista svedese Anders Retzius (1796-1860), discostandosi dal criterio del colore della pelle (insoddisfacente) per la classificazione delle razze, introdusse l’indice cefalico (rapporto tra la larghezza e la lunghezza del cranio). Tale misura ebbe un enorme successo nell’antropologia fisica, per la semplicità delle misurazioni, in individui viventi e non (i crani fossili), e per la precisione che sembrava avere, sebbene, dopo la seconda guerra mondiale, ne furono riconosciute la bassa ereditarietà e la sensibilità agli effetti ambientali a breve termine.

Le teorie relative alla superiorità e inferiorità razziale trovarono la loro espressione sistematica solo verso la metà del diciannovesimo secolo e si divisero in due correnti principali:

  • prima ci fu il tentativo di giustificare, su un piano scientifico, l’istituzione della schiavitù dei negri da parte degli Americani (tra i quali J.C. Nott e C.R. Gliddon), seguiti, in Inghilterra, dai sostenitori del movimento anti-abolizionista, tra cui il suo stesso promotore James Hunt.
  • successivamente, in Europa, comparvero le opere del conte Gobineau in Francia e di H. S. Chamberlain in Germania.

 

Fu in questo momento che venne coniato il termine razzismo per indicare l’utilizzazione del concetto di razza ai fini politici[1].

Lo sviluppo dell’idea di razzismo, trova la sua massima espressione nel XX secolo, con la combinazione di colonialismo, urbanizzazione, spinte nazionalistiche e, soprattutto, con lo sviluppo scientifico e medico. Infatti, si cercarono appigli scientifici in discipline come l’antropologia e la biologia per affermare l’origine genetica delle differenze razziali, che avrebbero fornito una potente arma alla propaganda nazista. L’intero mondo scientifico medico-biologico ne fu coinvolto, più o meno consapevolmente; anche teorie palesemente interessate agli individui, piuttosto che allo studio delle razze, furono manipolate al punto da essere determinanti nell’ascesa e nell’affermazione popolare del pensiero razzista (emblematici in tal senso i darwinisti sociali e l’eugenetica).

Le varie teorie medico-scientifiche, assunsero un carattere più drammatico quando la creazione dello stereotipo razziale venne a fondersi non solo sulla distinzione delle razze, ma anche su quella delle culture, in particolare la filologia e la linguistica.

 

Il conte Joseph Arthur Gobineau (1816-1882), nel suo Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane (1853–1855) espose l’idea che la razza superiore fosse rappresentata dai tedeschi, che riteneva essere i discendenti più puri di un popolo mitico, gli ariani. Cercando la causa della decadenza delle civiltà, riteneva di averla individuata nelle mescolanze etniche, che avrebbero ridotto la vitalità della razza aumentandone la corruzione.

Nel Saggio Gobineau riprende da Johann Friedrich Blumenbach la suddivisione delle razze umane in gialla, nera e bianca e, come Blumenbach, le dispone in gerarchia, ma – diversamente da Blumenbach e analogamente a Linneo – attribuisce a ciascuna razza determinate caratteristiche morali e psicologiche innate a cui fa riferimento per sostenere la tesi della superiorità dei bianchi sui gialli e sui neri. Per Gobineau, la razza gialla è materialista, portata al commercio e incapace di esprimere pensieri metafisici; la razza nera presenta sensi sviluppati all’eccesso e modesta capacità intellettiva; la razza bianca (o ariana), che incarna le virtù della nobiltà e i valori aristocratici, sarebbe invece contraddistinta dal suo amore per la libertà, per l’onore e per la spiritualità. Originaria dell’India, la razza bianca si sarebbe sovrapposta alle prime popolazioni europee (che secondo Gobineau erano di razza gialla) per formare il ceppo teutonico destinato a dominare l’Europa nei secoli successivi. Ma l’inevitabile incrocio con le altre razze ne avrebbe corrotto la nobiltà, e gli ariani avrebbero progressivamente assunto alcuni dei tratti deteriori delle razze inferiori (il materialismo dei gialli e la sensualità dei neri), in un processo degenerativo che Gobineau considerava irreversibile.

Il diplomatico francese fu legato da un rapporto di stima e amicizia con Alexis de Tocqueville, che gli fece da mentore nella sua carriera e lo assume come capo gabinetto. Proprio con Tocqueville Gobineau intrattiene una fitta corrispondenza sui temi della libertà e della razza.

Mentre l’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti fece scomparire le ideologie dei primi teorici della razza sia americani che inglesi, in Europa, le tesi razziste di Gobineau e altri, nonostante prive di qualsiasi fondamento, riscossero un grande successo, specie in Germania, dove divennero un caposaldo dell’ideologia nazista e una delle cause determinanti dell’olocausto della II guerra mondiale.

 

Un suo seguace fu lo scrittore britannico, naturalizzato tedesco, Houston Stewart Chamberlain (1855-1927). Egli esaltò la razza ariana, considerandola pura solo nel ceppo germanico. Nel 1882 si trasferì a Bayreuth dove incontrò il compositore Richard Wagner[2], di cui divenne ammiratore appassionato e che reputò l’apostolo della pura razza germanica. Dopo aver vissuto per anni a Dresda ed a Vienna con la prima moglie, nel 1908 sposò Eva Wagner, figlia del compositore tedesco ritornando a vivere a Bayreuth, dove visse fino alla morte.

Espose le sue idee nell’opera I Fondamenti del secolo XIX (1899) che successivamente avrebbe ispirato l’ideologia del Partito nazionalsocialista di Adolf Hitler. Chiave di volta della storia è per Chamberlain la razza. Per poter spiegare il mondo contemporaneo, bisogna considerare il retaggio dei tempi antichi, costituito da: filosofia e arte greca, diritto romano e personalità di Cristo, considerato non come ebreo ma come un ariano nordico. Gli eredi di questo retaggio sono, secondo Chamberlain, “due razze pure” – ebrei e tedeschi – e una “meticcia”, i latini. Tra questi eredi, Chamberlain considera i tedeschi come l’anima della civiltà europea, avendo essi ereditato le migliori qualità dei greci e degli indo-ariani. In base a ciò essi possono considerarsi signori del mondo.

La pubblicazione dell’opera rese subito famoso Chamberlain in Germania. Addirittura entusiasta ne fu il Kaiser, Guglielmo II, che divenne ben presto amico dello scrittore, conferendogli persino la Croce di Ferro dopo che questi si era naturalizzato cittadino tedesco nel 1916.

Durante il Terzo Reich le teorie di Chamberlain sulla supremazia razziale della Germania e dei tedeschi vennero fatte proprie dai nazisti. Adolf Hitler incontrò Chamberlain a Bayreuth nel 1923 e fece una buona impressione sullo scrittore inglese, tanto che questi si iscrisse al partito nazista e cominciò a scrivere sui giornali del partito[3]. Quando Chamberlain morì, l’11 gennaio 1927, Hitler presenziò al suo funerale.

 

Dopo il fallito putsch di Monaco Adolf Hitler venne arrestato e processato per alto tradimento. Ma il suo processo divenne l’occasione per far parlare di sé tutta la Germania, attirare l’attenzione della pubblica opinione sul suo partito e le sue idee. Lui sapeva che nel processo sarebbe diventato un martire solo perché voleva un governo forte e una Germania rispettata. Lo condannarono dopo 24 giorni di processo. Nel difendersi in tribunale davanti alla corte, ostentò sicurezza, dialettica, argomentazioni patriottiche inscenando veri e propri comizi che strappavano gli applausi ai presenti, trasformando l’aula del tribunale in un teatro. 24 giorni di appassionante difesa che tenne banco sui giornali, nei quali una buona parte iniziò a scrivere che “voleva” libero il “patriota”. Ma lo condannarono a cinque anni assieme a un famoso generale, che però nonostante una sua precedente fama fu del tutto ignorato, la platea era concentrata tutta sulla vera “vittima”.  Quando Hitler lasciò il tribunale per raggiungere il carcere, sapeva di aver raggiunto lo scopo. Il processo era stato un vero trionfo. In Germania ormai tutti parlavano di lui. E anche chi non ne parlava e non si esponeva, intimamente approvava quello che andava dicendo quell’uomo.

In carcere Hitler ci rimase sei mesi, sufficienti per scrivere Mein Kampf (La mia Battaglia).

L’opera, come programma ideologico (per Hitler definitivo) mostra, rispetto a quella di Chamberlain, ben poca originalità; punto veramente centrale è l’antisemitismo e la superiorità della razza germanica, che partorì poi il nazionalismo più estremo: il nazionalsocialismo, l’intero progetto politico e statuale del nazismo hitleriano. Teoria elitaria e discriminatoria che nella razza scorge il fondamento della nazione e della lotta per la supremazia. Il Mein Kampf termina proprio con queste due righe: “la nazione, nell’era della soppressione delle razze, deve pensare ai migliori elementi della propria stirpe, per essere un domani padrona del mondo“.

 

CONFUTAZIONE DEL CONCETTO DI RAZZA

Il concetto di razza è ormai decisamente superato e già da molti anni sarebbe dovuto scomparire, poiché la sua indefinibilità non gli consente di avere validità scientifica.

Già all’inizio dell’800, mentre alcuni studiosi misero in discussione la completa interfertilità entro la nostra specie, e quindi l’idea di una specie umana unica, altri studiosi, di fronte alle frustrazioni incontrate nella impossibilità di definire i gruppi di razze, iniziavano a condividere l’opinione che la razza fosse puramente un concetto ipotetico dal momento che era estremamente raro che un individuo possedesse tutti i tratti caratteristici di una delle razze individuate.

 

In merito a queste posizioni contrapposte, intervenne Charles Darwin (1809-1882), che, nel libro L’origine dell’uomo e la scelta in rapporto al sesso (1871), enumerò le argomentazioni pro e contro un’interfertilità completa tra gli esseri umani. Sfidando le testimonianze contrarie del suo tempo, Darwin concluse che la specie umana è probabilmente una sola, dal momento che “ogni razza confluisce gradualmente nell’altra” e che “le razze umane non sono abbastanza distinte tra loro da abitare la stessa regione senza fondersi; e l’assenza di fusione offre la prova usuale e migliore della distinzione tra specie”.

Egli affermò poi che le differenze tra le razze, anche se vistose, sono perlopiù irrilevanti, mentre vi è una grande uniformità nelle caratteristiche veramente importanti, comprese quelle mentali: nonostante le differenze esteriori tra aborigeni americani, neri africani ed europei egli era “continuamente colpito … dai tanti piccoli aspetti del carattere che dimostrano quanto le loro menti siano simili alle nostre“.

Riguardo ai problemi di classificazione, Darwin citava dodici autori nessuno dei quali concordava sul numero di razze esistenti (da 2 a 63): questo disaccordo era una prova ulteriore del fatto che “è difficile scoprire caratteri distintivi chiari” tra le razze, poiché esse “confluiscono gradualmente l’una nell’altra”.

Per quanto riguarda l’origine della variabilità, Darwin credeva che “non si possono spiegare in modo soddisfacente le differenze dei caratteri esteriori tra le razze umane imputandole all’azione diretta delle condizioni di vita; le differenze tra le razze umane come il colore della pelle, la pelosità, la fisionomia, ecc…, sono di tipo tale che ci si sarebbe potuto aspettare sopravvenissero per influenza della selezione sessuale”.

Darwin non si limitò alla biologia, ma intravide anche il legame tra dimensione biologica e storia della cultura umana. Intorno alla metà del secolo scorso, periodo in cui venne pubblicato “L’origine delle specie”, malgrado molti fossero effettivamente già convinti che gli organismi viventi subissero continue modifiche delle proprietà biologiche, l’idea che si potesse, ripercorrendo la storia della vita, risalire a un progenitore comune, ebbe un impatto enorme e provocò grandissime controversie.

Nella sua genialità, la teoria di Darwin, sebbene avesse già accertato che le variazioni somatiche acquisite nel corso della vita di un individuo – quali le amputazioni, le modifiche causate dall’uso o dal disuso, o da una malattia ecc. – non sono ereditabili, non era sufficiente a spiegare il processo evolutivo, l’insorgere delle differenze e la diversità biologica.

 

L’antropologo americano Franz Boas (1858 – 1942) è stato tra i primi a mettere in dubbio la stabilità evolutiva delle variazioni fenotipiche quantitative come la statura, le misure somatiche e in generale la maggior parte dei caratteri antropometrici, opponendosi in modo coraggioso al razzismo sia popolare che scientifico del suo tempo.

Franz Boas nacque il 9 luglio 1858 a Minden, in Germania. Studiò alle Università di Heidelberger e di Bonn prima di recarsi a Kiel dove, a 23 anni, gli fu conferito il dottorato in filosofia. L’argomento della sua tesi, “Contributo alla comprensione del colore dell’acqua“, aveva a che fare soprattutto con la fisica; fu, però, la geografia, che vi figurava in modo limitato, ad influenzare la futura carriera di Boas, per quanto egli si servì con profitto, nelle sue ricerche sulle differenze razziali e l’ereditarietà umana, anche di quella preparazione matematica che gli aveva dato lo studio della fisica.

Oggetto dei suoi interessi era soprattutto la geografia umana o culturale e ciò lo condusse logicamente alla nuova disciplina dell’antropologia. Tra il 1883 e il 1884, per motivi di studio si recò nelle regioni artiche (Isola di Baffin) dove rimase affascinato dalla cultura eschimese, così diversa da qualsiasi altra a lui nota, eppure così ben adattata al duro ambiente e soddisfatta nelle sue esigenze. Il compito di dare una spiegazione alle analogie e differenze culturali tra popolazioni diverse per tipo fisico e habitat naturale lo assorbì completamente e gli pose problemi allo studio dei quali dedicò il resto della vita.

Boas visitò per la prima volta gli Stati Uniti nel 1884 di ritorno dalla spedizione tra gli eschimesi. Aveva, nel frattempo, accettato un lavoro presso il Museo etnologico di Berlino e intrapreso anche la carriera universitaria (ottenendo una cattedra), ma la libertà di cui godeva il mondo intellettuale americano in confronto alla rigidità del sistema gerarchico tedesco lo attirò tanto che nel 1887 si stabilì a New York dove entrò nella redazione della rivista “Science” e si sposò.

E’ in questo periodo che iniziò i suoi famosi e approfonditi studi sugli usi e costumi degli indiani Kwakiutl, nativi della costa del pacifico settentrionale del Canada (British Columbia e Isola di Vancouver).

Nel 1889 ricevette il primo incarico accademico americano come insegnante di antropologia alla Clark University, rimanendovi fino al 1892 quando si trasferì a Chicago, dove divenne membro direttivo della World Columbian Exposition e in seguito del Museo Field. Ritornò a New York nel 1896 per lavorare al Museo americano di Storia Naturale. Dal 1899 al 1905 conservò l’incarico al Museo insieme con la cattedra di antropologia alla Columbia University.

Boas organizzò e prese parte alla spedizione Jesup North Pacific del 1902, che supportava l’ipotesi di uno stretto legame tra le popolazioni e le culture nordasiatiche e del nord-ovest americano.

Fu presidente dell’Associazione Americana di Antropologia nel 1907 e 1908 e dell’Accademia delle Scienze di New York nel 1910.

Dopo il 1905 si dedicò però quasi esclusivamente all’insegnamento universitario e fu il maestro di quanti, con lui, ebbero una gran parte nella costituzione della disciplina antropologica.

Si ritirò nel 1937, cinque anni prima della sua drammatica morte, avvenuta nel 1942, durante un pranzo da lui stesso offerto al Columbia Faculty Club in onore del suo amico Paul Rivet, un professore di Parigi perseguitato da quel nazismo, le cui perversioni razziali Boas aveva combattuto con le sue teorie.

Era un infaticabile lavoratore, dalla sua penna sono scaturite numerose monografie, nonché articoli su pubblicazioni scientifiche e riviste. Tra i suoi scritti ricordiamo: The Growth of Children (1896), The Mind of Primitive Man (1911), Anthropology and Modern Life (1928), Race, Language, and Culture (1940).

Egli è stato un pioniere nell’utilizzare un approccio scientifico negli studi antropologici. Inoltre, grazie ai suoi studi, mise in evidenza la necessità di studiare delle diverse popolazioni la cultura in tutti i suoi aspetti, inclusa la religione, l’arte, la storia e il linguaggio, allo stesso modo delle caratteristiche fisiche, introducendo un metodo che ancora oggi continua a avere un ruolo centrale in questo campo.

Una delle conclusioni più importanti a cui arrivò fu che non esiste una razza pura e che nessuna razza è superiore ad un’altra.

“Troppi studi sulle caratteristiche psichiche delle razze si basano prima di tutto sulla presunta superiorità del tipo razziale europeo e poi sull’interpretazione di ogni deviazione da questo come segno di inferiorità mentale. Quando il prognatismo dei negri viene interpretato in tal senso, senza che si sia provata una connessione biologica tra la forma delle mascelle e il funzionamento del sistema nervoso, si commette un errore paragonabile a quello di un cinese che descrivesse gli europei come mostri irsuti, il cui corpo villoso è una prova di inferiorità. Questo è un ragionamento di tipo emotivo, non scientifico.”

” … Ciò nonostante , si tende a dare una base biologica a classificazioni cui si è giunti in maniera del tutto irrazionale …”

Il libro “L’uomo Primitivo” di Franz Boas può essere considerato il suo libro più popolare; pubblicato nel 1911 (in tedesco nel 1914 con il titolo più esplicito “Kultur und Rasse“), dal momento della sua comparsa divenne bersaglio preferito dei sostenitori della tesi della superiorità razziale (fu uno dei volumi che i nazisti diedero alle fiamme il 10 maggio 1943); venne aggiornato in successive pubblicazioni che tenevano conto dei risultati delle ricerche svolte nel frattempo. I risultati definitivi confermarono le conclusioni iniziali: “… abbiamo dimostrato che la forma corporea non può essere stabile in senso assoluto e che le funzioni fisiologiche, mentali e sociali, dipendendo dalle condizioni esterne, sono assai variabili, tanto da non sembrare plausibile un’intima relazione tra razza e cultura.”

“Non c’è alcuna differenza fondamentale tra il modo di pensare dell’uomo primitivo e quello dell’uomo civile. Né s’è mai potuto accertare uno stretto rapporto tra razza e personalità. Il concetto di tipo razziale quale si ritrova comunemente anche nella letteratura scientifica è fuorviante e richiede una nuova definizione sia logica che biologica”.

Nell’edizione del 1911 c’era già quell’interesse per i processi ereditari che Boas avrebbe coltivato e messo ancora più in rilievo nell’edizione definitiva. Lo studio genetico dell’uomo era ancora agli inizi quando esce l’edizione del 1938.

Nel considerare l’aspetto culturale dell’esperienza umana, Boas fu geniale. La sua tesi per cui razza, linguaggio e cultura sono considerati delle variabili indipendenti, ossia che ad una stessa razza può corrispondere una o altra lingua una o altra cultura, è ampiamente documentata, sulla base di un’analisi comparativa molto accurata (dai Vedda di Ceylon ai negri d’America, dagli Eschimesi alle tribù della California, agli Europei in varie epoche). La maggior parte delle sue argomentazioni sulle conquiste culturali dell’uomo primitivo e gli esempi che egli dà sono diventati assiomatici in antropologia.

Nel lavoro intitolato Changes in the Bodily Form of Descendants of Immigrants del 1940, che presenta i risultati di uno studio condotto dall’autore per la Dilligham Commission on Immigration del Congresso degli Stati Uniti, Boas esaminò l’influenza svolta dall’ambiente sui tratti somatici ereditari: confrontando le caratteristiche fisiche dei figli degli immigrati negli Stati Uniti con quelle dei parenti rimasti nelle zone d’origine, egli mostrò l’importanza degli effetti ambientali a breve termine. Nonostante l’ampiezza di tali effetti ambientali a breve termine sia ben documentata, il suo lavoro, inevitabilmente per quel tempo, era statisticamente debole.

Alcuni dei concetti di Boas non sono più attuali (l’idea stessa di razza) e alcuni termini da lui usati sono caduti in disuso, ma è sorprendente la validità ancora attuale dell’impostazione delle sue tesi di base.

Viene anche ricordato per le seguenti qualità:

  • ” Il contributo scientifico di Boas consiste, prima di tutto, … nell’aver dato delle soluzioni che, nei loro limiti erano straordinariamente valide e nell’aver giustamente mantenuto entro certi limiti le sue conclusioni … nonostante la sua immensa capacità di indagine, seppe dove fermarsi e rispettò rigorosamente i confini dell’esperienza” da A.L. Kroeber, un suo allievo che divenne un grande studioso di antropologia culturale.
  • uomo dai molteplici interessi, … eppure i suoi scritti non mostrano traccia di dispersione.” da J.M. Tanner, studioso inglese di antropologia fisica in una pubblicazione commemorativa all’American Antropological Association in occasione del centenario della nascita di Boas

 

Nonostante molti antropologi si rifiutassero di accettare un’interpretazione razziale della storia, non costituivano un gruppo compatto, né uniformi erano i loro tentativi di correggere tali aberrazioni scientifiche. D’altro canto le loro ricerche non tenevano conto in genere delle implicazioni politiche e sociali della dottrina che veniva rifiutata e non potevano appoggiarsi ad alcun lavoro rigorosamente scientifico che traesse le sue conclusioni da un’analisi misurata ed oggettiva.

È stato dunque necessario attendere che la genetica si sviluppasse, sulla base delle leggi di Mendel, al punto da porre il problema dell’evoluzione in termini di geni, cromosomi e mutazioni (a partire dal 1920-1930).

Uno dei pionieri in questo campo fu Ludwik Hirszfeld (1884 – 1954), nato a Varsavia, in Polonia, professore di microbiologia e immunologia, sierologo di fama, co-organizzatore dell’Accademia Polacca delle Scienze. Tra il 1907 e il 1911 lavorò all’Istituto di ricerca di Heidelberg, dove, con alcuni collaboratori studiò i meccanismi che regolano l’ereditarietà dei gruppi sanguigni ABO.

Nel corso della I Guerra Mondiale, come medico al seguito dell’esercito serbo, aveva avuto occasione di verificare, mediante test sierologici, che la distribuzione dei tipi sanguigni A e B variava in modo significativo tra soldati di diversa provenienza etnica e propose un indice biochimico per distinguere le popolazioni sulla base di questi due antigeni.

Egli riconobbe per primo che la chiave per ricostruire una storia biologica dei popoli e degli individui andava ricercata non nel confronto dei tratti fisici, chiaramente influenzati dall’ambiente, ma in sottili differenze chimiche presenti nelle cellule, trasmesse secondo rigorose e prevedibili leggi ereditarie.

Nel 1941, Ludwik Hirszfeld, assieme ad altri quattrocentomila ebrei, fu rinchiuso nel ghetto di Varsavia, dove prestò opera come medico, organizzando, in condizioni sanitarie disastrose, la prevenzione e la cura delle malattie infettive; ciò nonostante, migliaia di persone furono deportate, morirono di epidemie, di freddo e di fame (Hirszfeld stesso perse una figlia, vittima della tubercolosi). Se oggi sappiamo che quanto avvenne allora, parte del merito è anche dovuta ai diari che questo medico polacco tenne in quel tragico periodo.

 

A partire dagli anni Trenta, l’immunologo americano W. Boyd si servì delle informazioni relative alle frequenze geniche del sistema ABO e degli altri gruppi sanguigni allora conosciuti (MN e P; il sistema RH fu scoperto nel 1940) per ricostruire la storia evolutiva della specie umana e la differenziazione delle razze. Boyd e altri cominciarono anche a studiare gli antigeni ABO nelle mummie, ricerca che incontrò molte critiche a causa delle possibili contaminazioni con antigeni batterici simili e della possibile distruzione degli antigeni ABO da parte di enzimi batterici specifici.

Il contributo di R.A. Fisher (1890-1962) allo studio teorico della struttura del sistema RH e delle sue applicazioni in campo evoluzionistico fu di grande stimolo per le ricerche sui gruppi sanguigni in Gran Bretagna.

Un grande studioso dell’evoluzione umana mediante l’analisi dei marcatori genetici fu l’inglese Arthur Mourant (1904-1994), che migliorò notevolmente la ricerca nel campo della genetica di popolazioni: grazie alla sua esperienza di ematologia genetica, egli poté caratterizzare molti gruppi etnici interessanti. Pubblicò la prima tabulazione moderna di dati di frequenze geniche fornendone un’interpretazione evolutiva (1954).

Era stata aperta la strada per lo studio della variabilità genetica umana o polimorfismo[4].

Negli ultimi decenni, la genetica e la biologia molecolare hanno fornito uno strumento potente e prezioso per confrontare differenze e somiglianze profonde a livello molecolare nei gruppi di organismi individui, passo determinante che ha permesso di ricostruire così l’albero filogenetico universale, ovvero di inserire in una scala temporale eventi come la nascita dell’uomo o i principali flussi di espansione e separazione di più gruppi etnici. Infatti, a parità di altri fattori, il tempo trascorso dalla separazione di due popolazioni umane è proporzionale alla differenza nel corredo genetico. Ovvero le caratteristiche genetiche delle due popolazioni tendono a mutare regolarmente nel tempo e tanto più ne è trascorso tanto maggiori saranno queste differenze o, come si dice più propriamente, tanto maggiore sarà la distanza genetica tra le due popolazioni.

 

[1] Il termine “Antisemitismo” fu invece poi coniato nel 1879 da un agitatore tedesco di nome Wilhelm Marr, ed ebbe fra i razzisti subito successo per quell’aria da parola “scientifica” che le dava l’etimologia greca, mutuata dagli studi dell’epoca in campo linguistico.

[2] Wagner non era  solo un compositore, ma anche un sanguigno autore di scritti politici (quelli successivi dopo il ’49) impastati di fanatico pangermanesimo e antisemitismo. Sul suo personale organo di stampa, il Bayereuther Blatter, scriveva e invocava con violenza di linguaggio e durezza di argomentazioni “la distruzione totale degli ebrei” che riteneva “demoni della rovina dell’uomo“.

Nietzsche (prima apologeta, poi detrattore fino alla repulsione)  quando la musica di Wagner era ormai  assurta nella coscienza pubblica a un rango spirituale, con disprezzo accusò Wagner di essere uno “stregone”, di trattare la musica come un “allucinogeno sonoro“. Impietoso anche  K. Marx, che iniziò a beffeggiare Wagner denominandolo “il musicante di stato“.

[3] Infatti, otto giorni prima del Putsch di Monaco (dell’8 novembre 1923) Adolf Hitler, in un’ora molto critica (con il suo triunvirato a un vicolo cieco), per placare il suo nervosismo, lui che era un accanito estimatore della musica e degli (ultimi) scritti di Wagner e di Chamberlain, lo troviamo a fare un devoto pellegrinaggio a Bayreuth. Nel giardino della villa, davanti alla tomba di Richard Wagner, l’autore del Parsifal che quand’era barbone a Vienna era andato a sentire 30 volte di seguito, Hitler non trattenne l’emozione. Cosima Lizst  ormai ottantaseienne  vedova di Wagner,  Siegfred suo figlio sposato con la figlia di un famoso giornalista anche lui inglese, ed infine Chamberlain con Eva Wagner, lo accolsero calorosamente e anche con orgoglioso compiacimento nel vedere questo fanatico estimatore. Quest’uomo di cui già si parlava in giro, stava ponendo a base della sua ideologia politica i miti glorificati dal loro congiunto. Particolarmente intenso fu però il colloquio con Chamberlain. Non gli parve vero che qualcuno mettesse finalmente in pratica quello che lui aveva scritto; e anche quello che non aveva ancora scritto.

Era stato proprio Chamberlain a mettere in luce nella sua opera come “in Germania risiede il più forte nucleo germanico continuatore degli ariani”. Era proprio di Chamberlain la teoria “dell’aspirazione ebraica al dominio mondiale, impedire il quale e contrapporvi la restaurazione di una gerarchia razziale universale è il compito degli ariano-germanici”.

Sappiamo che dopo questo incontro, Chamberlain scrisse a Hitler una solenne lettera; lo definiva “un dono di Dio”, un essere che il Signore aveva inviato sulla terra a testimoniare la grande vitalità della nazione; e se la Germania nella sua ora più critica  ha prodotto un Hitler, io adesso posso addormentarmi in pace. Dio protegga la Germania”.

 

[4] Lo studio dei polimorfismi. La vastità del fenomeno relativo ai polimorfismi fu precisata solamente in epoca successiva, grazie all’introduzione di nuove tecniche che permisero di passare dalle analisi sierologiche degli antigeni dei gruppi sanguigni, all’analisi elettroforetica delle proteine, fino alle attuali tecniche di indagine di biologia molecolare che permettono l’analisi diretta del DNA (Blotting, PCR, sequenziamento, ecc…).

Attraverso lo sviluppo di tali tecniche, venne infatti dimostrato che la variabilità dei gruppi sanguigni è l’espressione di un polimorfismo di proteine, che ha una manifestazione più generale e non riguarda solo i gruppi sanguigni. A partire dagli anni ’50 tale fenomeno è stato studiato ampiamente portando alla conclusione che numerose proteine aventi la stessa identica funzione potevano essere presenti in individui diversi in versioni leggermente differenti quanto a sequenza aminoacidica e quindi anche a livello di nucleotidi del DNA: geni che codificano per una stessa proteina in persone diverse possono non essere esattamente identici tra di loro, ma presentarsi in versioni lievemente differenti, dette alleli.

Inizialmente il DNA è stato studiato a livello dei siti di restrizione: dopo la scoperta nel 1970 degli enzimi di restrizione, capaci di tagliare il DNA in corrispondenza di sequenze specifiche, ci si accorse che non tutti gli individui presentavano nel loro genoma la stessa distribuzione dei siti di restrizione.

Ma il fenomeno della variabilità individuale, o polimorfismo, è assai più evidente a livello del DNA interposto tra i geni: privo di ruolo diretto nella sintesi delle proteine, esso sfugge più facilmente alla censura esercitata della selezione. In questi tratti non codificanti si trovano, ad esempio, brevi sequenze di basi ripetute un certo numero volte (STR, short tandem repeat o microsatelliti); il numero di tali ripetizioni in un dato STR è diverso da persona e persona, ma è trasmesso di genitore in figlio secondo i rigidi meccanismi dell’ereditarietà mendeliana.

Oltre a questi polimorfismi detti di lunghezza, nel DNA esiste anche un altro tipo di polimorfismo detto di sequenza; il caso più semplice di tale polimorfismo è rappresentato dalle mutazioni puntiformi: segmento di DNA che differisce in 2 individui per la sostituzione di una singola base.

Un ruolo importante è stato svolto anche dal DNA mitocondriale (decisamente più corto del DNA nucleare) che ha la particolarità di essere ereditato per quasi esclusiva via materna, in quanto lo spermatozoo contribuisce in proporzione minima, rispetto all’ovulo, al patrimonio mitocondriale del nascituro.

L’introduzione di tali marcatori genetici ha rappresentato una svolta rilevante nello studio della variabilità umana. I marcatori genetici si trasmettono per via ereditaria e non sono soggetti a cambiamenti a breve termine indotti dall’ambiente; è improbabile, però, che essi dimostrino una completa stabilità nel tempo, altrimenti non ci sarebbe alcuna evoluzione. Sono ben note la natura e la dinamica delle forze evolutive di maggior peso che influenzano le frequenze geniche dei marcatori genetici: la selezione naturale (compresa la selezione sessuale), la mutazione, la migrazione e il caso.

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