Il concetto di razza nella Germania nazista e nell’Italia fascista

Il concetto di razza nella Germania nazista e nell’Italia fascista

 

Dal nazionalismo biologico alla Volkgenosse tedesca

Con la fine del secolo viene meno la fiducia nella ‘grande e meravigliosa costruzione della società attuale’ e nella scienza come strumento di interpretazione ‘oggettiva’ della realtà naturale e umana. La crisi economica che investe il mondo capitalistico a partire dal 1873, avviando un ininterrotto periodo di stagnazione e brevi riprese, l’accentuarsi della competizione inter-imperialistica fra le potenze industriali per la spartizione delle risorse e dei mercati, la politica di riarmo praticata da molti paesi europei, la crescita del movimento operaio e la minaccia di sovversione che in esso si intravede, le emergenti istanze di emancipazione delle donne, tutto concorre a determinare una crisi culturale profonda e a imporre l’esigenza di una rilettura complessiva della vicenda umana alla luce di categorie diverse da quelle affermatesi a partire dalla rivoluzione francese.

 

L’antigiudaismo europeo di fine Ottocento

Se finora lo sforzo degli ideologi della società borghese era stato quello di circoscrivere l’ambito dei diritti universali alla razza bianca e all’homo europaeus visto come vertice dell’evoluzione naturale, ora, con l’emergere del nazionalismo, anche la nozione di razza bianca diventa troppo ampia e l’Europa si frantuma, nella coscienza degli intellettuali nazionalisti, in tante piccole ‘patrie’. Da questo punto di vista la nozione ottocentesca di nazione come unità culturale e linguistica non basta più e si parte alla ricerca di una connotazione di identità forte, se possibile biologica, ma anche profondamente interiorizzata, che distingua e separi mediante barriere insormontabili non più solo il bianco dal nero, dal rosso e dal giallo ma il tedesco dal francese, l’inglese dall’italiano e così via.

D’altro canto, per combattere l’influenza dell’internazionalismo socialista sulle masse popolari e realizzare un consenso compatto dell’opinione pubblica intorno ai conflitti che si aprono fra gli stati industrializzati, occorre che questa identità ‘nazionale’ comprenda anche le classi subalterne e le mobiliti nei confronti del ‘nemico’ esterno. Per questo risulta utilissima l’operazione di identificazione anche di un ‘nemico’ interno che costituisca il punto di riferimento ‘altro’ e ‘diverso’ rispetto al quale rafforzare la propria identità. Questa è probabilmente la chiave di volta per la spiegazione del ritorno di fiamma in Europa dalla fine dell’Ottocento dell’antigiudaismo, di cui l’antisemitismo nazista rappresenta solo un culmine di particolare virulenza. Nel suo insieme, questa operazione culturale non può più servirsi soltanto degli ‘asettici’ e ‘oggettivi’ strumenti dell’indagine scientifica (che pure non vengono del tutto abbandonati), ma richiede in molti casi un loro ‘superamento’ in nome di categorie irrazionali come l’intuizione, la sensibilità, il sentimento inconscio.

Esaminando ordinatamente questo processo, vediamo alcuni esempi di quanto abbiamo detto. Brunetière enuncia, in una conferenza del 1896, un’idea di nazione di tipo biologico (vai al testo n.8) (la nazione come comunità di sangue e di stirpe) che richiede, però, per essere intesa e creduta, non dimostrazioni di carattere scientifico ma un atteggiamento di tipo fideistico. Qualche anno più tardi, Barres (vai al testo n.9), lamentando il fatto che è difficile, se non impossibile, definire i francesi come razza, cerca di individuare comunque in un elemento mistico-irrazionalistico quella forte identità nazionale che sola può garantire ‘l’unità morale’ della Francia e garantirle il successo nella ‘lotta’ contro i nemici teutonici.

 

Il germanesimo

Sulle orme di Paul Anton de Lagarde (pseud. di Paul Anton Bötticher) e dei suoi Scritti tedeschi del 1878, in cui viene enunciata in modo organico una teoria mistica e spiritualistica della razza germanica come dotata di una superiore forza vitale che va preservata da ogni contaminazione, Wagner, Chamberlain e Weininger furono i teorici del ‘germanesimo’ che ebbe la massima influenza sulla cultura tedesca dell’inizio del secolo fino a influenzare profondamente un giovane austriaco destinato a una luminosa carriera politica: Hitler.

L’imperatore Guglielmo II ebbe a scrivere a Chamberlain dopo aver letto le sue opere, nel 1910: ‘Ora tutto l’elemento ario-germanico che dormiva in me nel profondo doveva tirarsi fuori poco per volta in una dura lotta, entrava in aperto contrasto con la ‘tradizione’, si manifestava spesso in forma bizzarra, spesso in modo informe, poiché si muoveva in me per lo più inconsciamente e come oscuro presentimento, e voleva aprirsi una strada. Ora Lei viene e come con una bacchetta magica instaura ordine nella confusione, porta luce nell’oscurità, indica le mete a cui bisogna tendere e per cui bisogna lavorare, rende chiare le vie oscuramente presentite che debbono essere seguite per la salvezza dei tedeschi, e quindi per la salvezza dell’umanità.

Chamberlain fonde in uno i due filoni, quello scientifico e quello mistico, della teoria razziale, proclamando la sua fede darwinista e la sua adesione alle teorie craniometriche che ‘dimostrano’ inequivocabilmente il carattere superiore della razza ariana di cui i tedeschi sono gli esemplari più puri ed incontaminati, ma, negando la teoria dell’evoluzione (nel timore che essa dia qualche speranza alle razze inferiori di potersi un giorno elevare al di sopra del proprio stato), ripropone una visione ‘fissista’ delle razze destinate a rimanere per sempre collocate in una scala gerarchica immutabile: ‘Io seguo il grande naturalista nella scuderia, nel pollaio, nella serra, e dico che qui vi è qualcosa che conferisce un senso alla parola ‘razza’ è incontestabile e evidente a ognuno’. D’altro canto, egli privilegia ‘dimostrazioni’ di altra natura quando afferma: ‘Immediatamente persuasivo come nient’altro è il possesso della ‘razza’ nella propria coscienza. Chi appartiene a una razza decisamente pura lo sente di continuo […] Senza preoccuparmi di dare una definizione ho mostrato la razza nel mio proprio petto, nelle grandi azioni del genio, nelle splendide pagine della storia umana’.

Chamberlain considera pertanto illusoria e fantastica la nozione illuministico-kantiana di ‘storia universale’, dal momento che nega l’esistenza di una umanità unica, seppur bianca, e attribuisce importanza e rilievo storico solo alla ‘specie tedesca’ di umanità: ‘Appena parliamo di umanità in generale, appena ci illudiamo di scorgere nella storia uno sviluppo, un progresso, un’educazione, ecc. dell’’umanità’, noi abbandoniamo il sicuro terreno dei fatti e navighiamo in aeree astrazioni. Questa umanità su cui si è tanto filosofato ha infatti il grave difetto di non esistere. […] La teoria dell’umanità impedisce ogni vera comprensione della storia e deve essere faticosamente sarchiata, come un’erbaccia […] prima che si possa affermare, con speranza di essere compresi, questa verità evidente: la nostra attuale civiltà e cultura è specificamente germanica, è opera esclusiva del germanesimo. […] Ciò che in essa non è germanico è un elemento patologico […] oppure è merce straniera che naviga sotto bandiera germanica, che naviga finché non la mandiamo a picco.

Con Chamberlain e con Weininger si comincia a identificare nella cultura ebraica e nella ‘mentalità ebraica’ la ‘merce straniera che naviga sotto bandiera tedesca’ e nell’ebreo il veicolo di una ‘infezione’ che rischia di inquinare la purezza della razza germanica. Questo ‘processo infettivo’ data alla penetrazione in occidente del ‘cristianesimo giudaizzante’ ad opera dell’’ebreo’ Paolo di Tarso e del ‘meticcio’ Agostino di Ippona, proseguendo poi con la penetrazione di una ‘giudaica’ mentalità materialistica, individualistica e utilitaristica che confligge con la spiritualità ariana (vai al testo n.10).

 

L’equazione ebreo=donna=comunista

Con Weininger, ebreo austriaco suicidatosi nel 1903, subito dopo la pubblicazione del suo Sesso e carattere, uno dei più violenti e famosi libelli antigiudaici dell’inizio del secolo, si instaura l’equazione ebreo=donna=comunista. Weininger (vai al testo n.11) costruisce quindi un tipo ideale ariano sulla base del sesso e della razza.

Più grezza, ma non meno aggressiva, l’immagine dell’ebreo “invasore” (vai al testo n.12) della Francia (alla ricerca, come si è visto, della propria identità nazionale) fornita da E. Drumont nel suo La France juive del 1886. Per fortuna, però, come dice Weininger: ‘Di fronte al nuovo ebraismo si fa strada un nuovo cristianesimo; l’umanità aspetta impaziente il nuovo fondatore di religioni e la lotta tende alla conclusione decisiva, come nell’anno uno’.

 

Il verbo organicista e la caccia al diverso

A sollevare gli intellettuali decadenti dell’inizio del secolo dal pessimismo che li aveva indotti a ritenere che, a causa della mescolanza delle razze e della ‘femminilizzazione’ e ‘giudaizzazione’ delle società e delle culture europee, esse fossero destinate a un inarrestabile tramonto, vennero i nuovi fondatori di religioni, portatori del verbo organicista, che tentarono di dare alla politica di potenza un fondamento razzistico e biologistico, realizzando il massimo del consenso interno attraverso lo scatenamento della ‘caccia al diverso’, nel tentativo di realizzare un modello di società uniforme, ordinata, gerarchica e militarizzata. Come osserva Enzo Collotti: ‘Se volessimo dare una definizione sintetica del tipo di società che sognavano i nazisti, prima ancora che rispondere facendo richiamo all’unità degli ariani, risponderemmo: una società senza diversi’ (vai al testo n.13).

Lo Stato come unità di stirpe ariana

Darwinismo sociale e mistica razziale, argomentazioni desunte dalla tradizione scientista e da quella irrazionalistica, tradizionalismo e ultrarivoluzionarismo, sono ingredienti utilizzati, senza andare troppo per il sottile, nella costruzione del mito nazista in Germania a opera di Hitler e di una schiera di ideologi impegnati per la prima volta in Europa a realizzare concretamente i sogni ‘eugenetici’ di una grande potenza. Le ambizioni imperialiste tedesche sono volte prevalentemente all’Europa e in particolare alla conquista e ‘colonizzazione’ dell’est europeo; di qui l’insistenza sul ‘nemico esterno’ slavo che per di più, nella accezione russa, ha anche il difetto di essere bolscevico e pertanto inquinato da elementi ebraici.

Il fulcro della concezione nazista dello Stato come ‘comunità popolare’ (Volkgenosse) intesa come unità di sangue e di stirpe ma fortemente gerarchizzata e guidata da un leader che ne rappresenta e incarna il destino, è enunciato con grande chiarezza dallo stesso Hitler quando teorizza l’incompatibilità tra nazionalismo razzista e democrazia (vai al testo n.14).

 

La politica eugenetica e la propaganda

L’escalation istituzionale che conduce all’internamento di 18 milioni di persone nei campi di concentramento nazisti e allo sterminio di 11 milioni di loro, di cui 6 milioni ebrei, è descritta in efficace sintesi da Enzo Collotti (vai al testo n.15).

Pochi esempi dello sterminato armamentario propagandistico, spesso delirante, messo in atto dal nazismo per ‘dimostrare’ l’inferiorità e la pericolosità dell’ebreo, utilizzando, allo scopo di rendere diffusa e capillare la convinzione in proposito, tutti i mezzi di comunicazione di massa consentiti all’epoca, dai grandi raduni oceanici, alla radio, alla stampa, al cinema, alle pubblicazioni per la scuola e la gioventù: così si esprime Robert Ley nel 1935: ‘Ora vorremmo stabilire che cosa è l’ebreo. L’ebreo nacque nell’Asia anteriore. Nei secoli passati l’Asia anteriore era la borsa del mondo. Lì si incontravano i tre continenti, Africa, Asia e Europa. Era la via più breve dove il negro portava il suo avorio, l’europeo la sua ambra, gli asiatici le loro spezie. Lì scambiavano i loro prodotti e si mescolavano tra loro. Nacquero i mulatti, da neri e bianchi, poi arrivarono i popoli delle montagne del Caucaso e cacciarono questa palude di razze nel deserto arabico. In questo deserto erano ermeticamente isolati da tutti. Erano come in un grande ghetto. In questo ghetto questi mulatti non potevano che praticare rapporti incestuosi. Così questi meticci, di razza e di specie diverse, praticarono l’incesto dal quale nacque il parassita. Un parassita è un meticcio più sviluppato, un meticcio di razze e specie diverse fra di loro, prodotto dell’incesto. Così l’ebreo non è né una razza a parte né un meticcio; l’ebreo è un parassita. E’ importante sapere questo. E’ un parassita, l’unico parassita umano in tutto il mondo. Per questo è il polo a noi opposto.

Si legge nel libro di lettura ad uso dei bambini delle scuole primarie, Der Gifpilz (‘Il fungo velenoso’), pubblicato nel 1938: ‘Il piccolo Franz è andato con la mamma a cercare funghi nel bosco […] Franz prende un fungo dal suo cesto. ‘Mamma, questo fungo non mi piace. E’ certamente velenoso!’ La madre scuote la testa: ‘Hai ragione. Questo è un fungo di Satana. E’ molto velenoso. Si riconosce subito dal colore e dal terribile odore. […] ‘Qui ce n’è un altro campestre!’ grida Franz e prende un altro fungo. La madre atterrisce. ‘Per amor di Dio, Franz! Questo non è un campestre. Questo è un amanita falloide. E’ il fungo più velenoso, più pericoloso che ci sia. E’ doppiamente pericoloso perché si può facilmente scambiare. […] I due prendono in mano i loro cesti e si avviano verso casa. Strada facendo la madre dice: ‘Guarda Franz, come accade per i funghi del bosco, lo stesso accade anche per le persone sulla terra. Ci sono funghi buoni e persone buone. Esistono funghi velenosi, funghi cattivi e persone cattive. E da queste persone bisogna guardarsi come dai funghi velenosi. […] E sai anche chi sono queste persone cattive, questi funghi velenosi dell’umanità?’ incalza la madre. Franz si dà delle arie: ‘Certo, mamma! Lo so. Sono gli ebrei. Il nostro maestro ce lo dice spesso a scuola.

La politica eugenetica, che ha prodotto il tentativo di sterilizzazione dei malati mentali e degli handicappati fisici e psichici sancito dalla legge fin dal 1933, concentra l’attenzione sul dato biologico della purezza sessuale, non solo vietando la ‘mescolanza’ tra tedeschi puri e ‘non tedeschi’ ma cercando di costituire, attraverso le SS, una sorta di ‘allevamento’ di ariani puri, destinando i membri del corpo speciale, oltreché ad azioni di particolare livello di efferatezza, alla riproduzione di un selezionato campione della razza germanica.

 

L’antisemitismo in Italia

Si è spesso sostenuto che la penetrazione, dal 1938, dell’antisemitismo in Italia sia il prodotto artificiale dell’alleanza militare italo-tedesca (l’Asse Roma-Berlino) destinato a fare scarsa presa in un paese non affetto da tentazioni razziste. In realtà, se è sostenibile che l’antisemitismo laico e razzista non abbia solide radici in Italia, dove peraltro alligna un solido antisemitismo religioso di impianto cattolico, non è affatto sostenibile che la cultura italiana non abbia prodotto esempi di razzismo nei confronti delle popolazioni africane soggette al dominio coloniale italiano, siano esse arabe o ‘etiopi’; la differenza tra il razzismo italiano e quello tedesco o anglosassone è, semmai, nella minore presenza di un ‘razzismo interno’ rispetto a quello ‘esterno’, dovuta al fatto che l’Italia ha costruito il suo mito nazionalistico, dagli anni Dieci del Novecento al fascismo, intorno al tema della ‘nazione proletaria’, impegnata a costruirsi il suo impero combattendo contro lo strapotere delle vecchie potenze ‘plutocratiche’ e ‘borghesi’, facendo leva sulle virtù del suo laborioso popolo contadino. Dal discorso di Corradini L’Italia nazione proletaria del 1910 e dalla orazione pascoliana La grande proletaria si è mossa del 1911 si diparte un filone di pensiero populista e ‘antiborghese’, di cui il fascismo si farà interprete, che vede nell’avventura coloniale e nella politica imperialista uno strumento di riscatto e di emancipazione per una nazione che, risorta dalle ceneri degli antichi fasti imperiali di Roma, stenta a ritrovare la sua collocazione di grande potenza mondiale.

C’è però un filo sottile che consente l’ambientazione, anche nell’Italia fascista a partire dal 1938, di tematiche antisemite che hanno avuto la loro espressione culturale nel Manifesto della razza, pubblicato nel luglio 1938 e nella fondazione della rivista ‘Difesa della razza’ e la loro espressione istituzionale nelle leggi razziali emanate fra il settembre e il novembre dello stesso anno. Oltre alla necessità di affermare il proprio arianesimo, seppure ‘mediterraneo’, di fronte al pericolo di essere identificati, come ‘europei del sud’, con razze inferiori, gli uomini del regime e gli intellettuali fascisti colgono dell’antisemitismo un aspetto congruente alla loro antica polemica nei confronti del materialismo, dell’utilitarismo, dell’individualismo e del cosmopolitismo tipici della cultura borghese moderna. Lo ‘spirito ebraico’ risulta assai simile, nelle descrizioni che ne vengono fornite dagli ideologi europei e in particolare tedeschi, allo spirito ‘borghese’ contro il quale il fascismo ha cercato in un ventennio di forgiare l’‘uomo nuovo’, capace di subordinare gli interessi personali ai superiori interessi della nazione, di privilegiare i valori ‘spirituali’ della patria e della potenza guerriera rispetto ai valori ‘materiali’ del benessere e del comfort, di identificarsi con lo Stato anziché piegare gli interessi dello Stato a proprio vantaggio. Nella lotta contro lo ‘spirito ebraico’ si poteva riciclare la lotta contro il ‘materialismo’ borghese e socialista e riaffermare i valori originari del fascismo ‘militante’, un po’ spenti dopo anni di regime.

 

Il Manifesto della razza e le leggi razziali

Il Manifesto della razza (vai al testo n.16), pubblicato sul ‘Giornale d’Italia’ il 14 luglio 1938, recava le firme di personalità decisamente ‘minori’ della cultura italiana dell’epoca, per lo più sconosciute al grosso pubblico, con l’eccezione dell’antropologo razzista Cipriani e dello scienziato cattolico Nicola Pende, che peraltro ritirò prontamente la sua firma. La debolezza teorica del manifesto è evidente.

Lo scopo di emarginare gli ebrei e impedire la ‘contaminazione’ della razza italiana venne raggiunto attraverso le leggi razziali che vennero in tre ondate successive tra il settembre, l’ottobre e il novembre 1938. La prima (5 settembre) espelleva dal territorio italiano gli ebrei di nazionalità straniera, di fatto ricacciando quegli ebrei che avevano trovato rifugio in Italia dalle persecuzioni in Germania. Inoltre venivano espulsi dall’insegnamento medio e universitario gli ebrei italiani. La seconda (6-7 ottobre) toglieva agli ebrei che non dimostrassero sicura fede fascista o non fossero eroi della prima guerra mondiale la cittadinanza italiana, considerandoli razzialmente estranei. La terza (17 novembre) introduceva i provvedimenti ‘eugenetici’ per la difesa della razza, vietando i matrimoni fra ariani ed ebrei e annullando i matrimoni già contratti e imponendo l’indicazione della razza di appartenenza sui documenti di identità. In seguito vennero adottati provvedimenti ancor più restrittivi, sull’esempio di quelli nazisti, vietando agli ebrei di possedere radio riceventi, di frequentare luoghi di villeggiatura, di pubblicare libri ed escludendo i loro nomi dagli elenchi telefonici.

 

Riflessioni sulla situazione attuale

Possiamo permetterci di sorridere di queste ‘buffonate’ in virtù della nostra superiore consapevolezza di contemporanei, vaccinati definitivamente dalle tragedie della seconda guerra mondiale e del colonialismo e certi dell’avanzamento progressivo del sapere? Possiamo permetterci di considerare effetto di ignoranza o di ‘sottocultura’ il rigurgito razzista che tanto inquieta le nostre coscienze di democratici? Oltre ad essere avvertiti del carattere ‘scientifico’ e ‘progressivo’ assunto dal razzismo europeo in epoca positivistica, del carattere apparentemente neutrale della sua impostazione rigorosamente quantitativa, della capacità dimostrata dal pregiudizio di influenzare anche i risultati di somme e sottrazioni, possiamo tenere conto, per rispondere a queste domande, di alcune produzioni scientifiche recenti che, pur con variazioni puramente tecniche, ripropongono la ‘scala delle differenze’ in tutto il suo inalterato splendore. Un esempio tra tanti è costituito dagli studi statistici della scuola statunitense che basa la sua gerarchizzazione delle razze e delle classi sulla misurazione del quoziente di intelligenza, versione aggiornata della craniometria. Sull’argomento si consiglia la lettura dell’ampio saggio di Gould in Intelligenza e pregiudizio, che dimostra con profusione di particolari come si riproducano in questa ‘disciplina’ tutte le caratteristiche di inconsapevole ‘disonestà procedurale’ denunciate a proposito dei più noti craniometri, da Morton a Broca.

E’ di due anni fa l’articolo pubblicato sul ‘New York Times Magazine’ dallo storico statunitense Paul Johnson che sostiene l’auspicabile ritorno del colonialismo in Africa data l’evidente ‘inferiorità’ politica delle popolazioni africane dimostrata negli ultimi decenni di indipendenza, negando peraltro recisamente che ‘i problemi dell’Africa e di altre nazioni fuori di essa siano stati creati dal colonialismo, o dalla demografia o dai disastri naturali o dalla mancanza di finanziamenti’; l’unica spiegazione rimane quella di una incapacità congenita delle popolazioni non bianche a governare se stesse.

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