La relatività

Contesto storico

1.Fine Ottocento la seconda rivoluzione industriale: trasformazioni nel modello di sviluppo sociale, politico ed economico;

2.Crisi del Positivismo e perdita della fiducia nella capacità di studiare oggettivamente la realtà;

3. la scienze non è più intesa come epistéme: “il sapere scientifico non è costituito da verità assolute e immutabili, ma da ipotesi o congetture.

APPUNTI: A partire dalla seconda metà dell’Ottocento ha inizio la seconda rivoluzione industriale: la cosiddetta “età dell’acciaio” che determina grandi stravolgimenti in ambito economico, sociale e politico. Diverse furono le innovazioni, fra queste, ricordiamo: la costruzione di centrali idroelettriche, l’utilizzo della locomotiva e dei tram, l’invenzione lampadina a incandescenza ad opera dell’americano Edison, mentre in Germania Daimler produsse la prima automobile a benzina. Ma si ebbero progressi anche in campo medico, Pasteur inventò la vaccinazione e si migliorarono le condizioni igienico-sanitarie per evitare la diffusione di epidemie. E’ in questo clima di fervente ottimismo che  trova il proprio apogeo il Positivismo. Il pensiero positivista nasce dall’esigenza di costruire una società stabile fondata su una teoria capace di dominare lo sviluppo storico, per evitare conflitti e scelte irrazionali; e d’altra si origina per la sconfinata fiducia che l’uomo riacquista in se stesso e nell’uso della ragione. Il Positivismo si propone di studiare la realtà secondo i criteri della scienza, attraverso il metodo scientifico era quindi possibile partire dal dato di fatto, dal “positivo” secondo un atteggiamento obbiettivo, distaccato e lontano da giudizi o interpretazioni fantasiose. Con Auguste Comte nasce la sociologia, l la disciplina che studia scientificamente i fenomeni sociali, prevedendone gli effetti. In Italia Lombroso nel saggio che possiamo definire pseudoscientifico “L’uomo delinquente” sosterrà erroneamente che i comportamenti criminali sono biologicamente predeterminati ed è questo che determina la costituzione fisiologica del cranio.  E ancora di parlerà di Positivismo evoluzionistico, ambito nel quale Charles Darwin avanzerà le proprie teoria sull’evoluzione della specie” e “la lotta per la sopravvivenza”.

Tuttavia a cavallo tra Ottocento e Novecento si vengono a mostrare i primi cenni di incertezza, se in ambito economico la crisi della sovrapproduzione (1873-1896 ) sconvolge le certezze del liberismo ottocentesco ridisegnando l’economia (con il monopolismo, l’imperialismo e l’interventismo statale), e offuscando la fiducia nell’autoregolazione del mercato e nel ruolo positivo della concorrenza, anche la filosofia positivista dà segni di cedimento. La crisi dilaniò all’interno di una comunità che – proprio a causa del progresso straordinario delle scienze, delle tecniche, delle tecnologie, del sistema finanziario – si rivelò incapace di affrontare le conseguenze devastanti sul piano dei processi sociali di massa. Se da un lato lo sviluppo industriale fu fautore di innovazioni e ricchezze per le classi imprenditoriali e quella borghese, nel proletariato generò: alienazione, rivendicazione di diritti, emancipazione femminile, malessere e disorientamento individuale,  marginalità e devianza nella metropoli moderna, mercificazione dell’arte con la “perdita dell’aureola” da parte del poeta come dirà Charles Boudelaire, disagio della civiltà (Freud). Nasceranno i partiti di massa, i movimenti socialisti che confineranno nel comunismo confidando nel Manifesto del partito comunista del 1848 di Marx ed Engels in opposizione al capitalismo.

È questo il clima in cui si determineranno anche mutamenti e si avanzeranno nuove teorie nel campo della scienza, non a caso si parlerà di una “seconda rivoluzione scientifica”. Il declino dell’egemonia borghese e il sorgere impetuoso dei movimenti socialisti, il carattere fortemente conflittuale di una stagione dominata dall’imperialismo hanno fatto perdere la fiducia nel progresso, la scienza abbandona la propria pretesa di essere spiegazione onnicomprensiva e definitva, sorgono nuove istanze metafisiche e si avvia una nuova collaborazione tra riflessione scientifica e filosofica; essa (la scienza) non sarà più considerata come epistéme, cioè come un insieme di verità universalmente e indiscutibilmente valide, ma come opinione (o dὁxa), la dὁxa è infatti una conoscenza incerta e mutevole, mentre l’epistéme è una conoscenza certa e immutabile. Perché  seconda l’epistemologia contemporanea (cioè secondo l’odierna filosofia della scienza), il sapere scientifico non è costituito da verità assolute e immutabili, ma da ipotesi o congetture.

Il dibattito fra riflessione filosofica e ricerca scientifica che si innesca in questi anni focalizza l’attenzione su questioni importanti come l’organizzazione deterministica o indeterministica del mondo naturale:

Nella filosofia classica il carattere deterministico del mondo naturale, accantonato il finalismo di matrice aristotelica, era stato affermato più volte: da Democrito, da tutta la scienza secentesca, dalla fisica newtoniana, dalla filosofia di Kant. Anche la teoria della relatività sostiene l’organizzazione deterministica del mondo naturale: il mondo è e resta deterministico, anche se la limitata conoscenza della cause, la mancanza di nozioni o di strumenti adeguati costringe l’uomo ad accontentarsi di spiegazioni probabilistiche. Einstein ritiene che il comportamento del mondo fisico sia fondato sulla causalità, dunque in sé deterministico egli ironicamente dice «Dio non gioca a dadi». Di contro la  fisica quantistica , sostiene che tutto il mondo naturale è in sé indeterminato e che non è retto dal principio di causa, perché l’accadere degli eventi segue una logica probabilistica.

Il programma di ricerca meccanicistico che caratterizza la “fisica classica” consiste nel progetto metodologico di interpretare e spiegare tutti i fenomeni fisici in base alle leggi della meccanica come il risultato di forze attrattive e repulsive che agiscono fra particelle materiali e la cui intensità dipende unicamente dalla distanza. Connesso al meccanicismo è poi il determinismo, secondo cui ogni fenomeno di un sistema meccanico risulta predeterminato secondo un rapporto di causa-effetto. Alla base del meccanicismo stanno le trasformazioni galileane con l’assunto fondamentale che le leggi della meccanica abbiano la stessa forma matematica rispetto a qualunque sistema di riferimento nel quale valga il principio di inerzia e inoltre, i concetti di spazio e tempo assoluti newtoniani, secondo cui le distanze spaziali e gli intervalli temporali rimangono invariati, cioè uguali a se stessi, in qualsiasi circostanza e per qualunque osservatore. Questo fu il paradigma che durò per secoli ma era destinato a imbattersi in difficoltà insuperabili.

MECCANICISMO VS SECONDO PRINCIPIO DELLA TERMODINAMICA & ELETTROMAGNETISMO

Infatti una delle prime difficoltà incontrate nel corso dell’Ottocento dal programma di ricerca meccanicistico è lo “scandalo” del secondo principio della termodinamica. Secondo il meccanicismo ogni fenomeno naturale è in linea di principio reversibile: se è possibile passare dalla causa all’effetto, dev’essere anche possibile passare dall’effetto alla causa. Ebbene, il secondo principio della termodinamica afferma invece che non è possibile riconvertire in lavoro tutto il calore da esso prodotto. Mentre l’energia meccanica può trasformarsi integralmente in calore, il calore non può trasformarsi integralmente in energia meccanica. Tale principio quindi, ammette la degradazione dell’energia (o entropia), mentre il meccanicismo vorrebbe la sua perfetta reversibilità e conservazione.

Altri risultati in contrasto con il programma di ricerca meccanicistico emergono anche nell’ambito dei fenomeni elettromagnetici descritti dalle equazioni di Maxwell le quali sono in completo disaccordo con la meccanica classica, nonché le trasformazioni di Galileo. Secondo Maxwell la velocità della luce è un’invariante, una grandezza che non dipende dal sistema di riferimento in cui è prodotta o misurata. Gli esperimenti sull’interferenza e la diffrazione avevano convinto i fisici della ondulatori: essa fu definita come una perturbazione che si propaga in un mezzo materiale che vibra chiamato “etere luminifero”. Le proprietà di questo etere restavano, però, misteriose e indecifrabili, perché l’etere doveva avere delle caratteristiche fra loro contraddittorie: doveva essere impalpabile, tanto da penetrare in tutti i corpi, e contemporaneamente rigidissimo, per poter spiegare la velocità enorme delle vibrazioni luminose. Nel 1887 i fisici Albert A.Michelson (1852-1913) ed Edward W.Morley (1838-19239), effettuando un esperimento basato sul fenomeno dell’interferenza della luce, cercano di misurarlo con uno strumento chiamato interferometro, costituito da due specchi e una sorgente luminosa. Questo apparecchio avrebbe dovuto cogliere lo scarto fra il tempo impiegato all’andata e quello impiegato al ritorno da un raggio di luce; l’interferenza dell’etere avrebbe dovuto incrementare o diminuire la velocità della luce. Tuttavia il risultato dell’esperimento è pressoché nullo poiché le figure di interferenza non differirono fra loro: nulla prova, quindi, l’esistenza dell’etere. Ma la vera e propria rivoluzione si produce all’inizio del Novecento grazie alla teoria della relatività di Albert Einstein  che negherà le nozioni newtoniane di tempo e spazio assoluti ma non solo.(1879-1955).

RELATIVITA’ RISTRETTA

Nel  1905 Albert Einstein scrive quattro articoli i cosidetti “Annus Mirabilis Paper”, in uno di questi  “Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento viene esposta per la prima volta la teoria della relatività ristretta.

M.C.Escher, Relatività, 1956, litografia Spazio e tempo non sono assoluti, ma vanno considerati all’interno del loro sistema di riferimento: la relatività di Einstein è esemplificata in questa incisione di Escher, in cui sono rappresentanti, contemporaneamente, più sistemi di riferimento.

RELATIVO A SPAZIO E TEMPO

U.Boccioni, Forme uniche nella continuità dello spazio,

1913, bronzo Il continuo spazio-temporale descritto

da Minkowski è rappresentato in questa scultura di Boccioni,in cui il movimento rapido del corpo consente l’espansione dei volumi nello spazio, nella rappresentazione simultanea  di più momenti successivi.

Proprio come la teoria della relatività mette in crisi  la nozione newtoniana dello spazio e del tempo allo stesso modo nella produzione artistica di inizio Novecento vengono fuori nuovi modi di cogliere e rappresentare lo spazio. La “Tour Eiffel” di Robert Delaunay con energia luminosa fa esplodere la struttura metallica che si staglia verso l’alto  facendo vacillare le case che le si  addensano intorno. Non è uno spazio realistico ma il modo personale in cui egli percepisce il proprio spazio cittadino.

RELATIVITà E FILOSOFIA DA CORREGGERE

.  Il dibattito filosofico sulla teoria della relatività Che la teoria della relatività sia gravida di conseguenze speculative appare chiaro subito. Si sviluppa così, a cavallo fra gli anni Dieci e Trenta, un ampio dibattito fra neopositivisti, soprattutto Schlick e Reichenbach, e neokantiani, in particolare Cassirer. Per i neopositivisti, la gnoseologia kantiana, che ritiene la nostra intuizione dello spazio un a priori euclideo e tiene rigidamente separati spazio e tempo, viene smentita dalla relatività. Quest’ultima mostra da un lato che la fisica è costruita in base all’esperienza e a delle regole opportunamente scelte dal ricercatore, dall’altro che non c’è alcun a priori dotato di validità universale e necessaria. I neokantiani, invece, interpretano la teoria einsteniana come l’inveramento della rivoluzione copernicana, in quanto essa conferma il fatto che l’oggettività per l’uomo non è mai un dato, bensì un costrutto che coinvolge operazioni della mente. Nella loro lettura, Kant afferma il carattere spaziale (e temporale) della nostra intuizione, ma non ne sostiene esplicitamente il carattere euclideo. Aggiungono, poi, che la relatività completa un processo che percorre tutta la fisica moderna e che mostra il passaggio dalla vecchia concezione della conoscenza come mero rispecchiamento del dato (tipica del realismo) a una del tutto nuova, che la intende come conferimento della forma al dato empirico. Dal canto suo, anche Einstein si mostra in qualche misura debitore del kantismo, almeno quando ritiene che il mondo fisico, che egli da realista reputa esistente indipendentemente dall’uomo, assuma un rilievo per la conoscenza solo quando ricostruito razionalmente in base a regole. Queste regole non sono degli a priori in possesso di validità universale e necessaria, ma vengono costruite in stretto rapporto con l’esperienza. Il tratto che le rende scientifiche non è, tuttavia, la loro verità o corrispondenza effettiva con il mondo fisico, quanto la loro coerenza formale.

7a. I concetti scientifici e la realtà (Einstein) Tutta la scienza non è altro che un raffinamento del pensiero comune. E’ per questa ragione che il pensiero critico del fisico non può verosimilmente venir ristretto all’esame dei concetti del suo campo specifico. […] Contrariamente alla psicologia, la fisica si interessa direttamente soltanto delle esperienze sensoriali e della “comprensione” delle loro connessioni. Ma anche il concetto di “realtà esterna” del pensiero comune si fonda unicamente sulle impressioni sensoriali. […] Io credo che il primo passo verso una descrizione sistematica di un “mondo reale esterno” sia la formazione dei concetti di oggetto corporeo e di oggetti corporei di varia conformazione. Dalla massa delle nostre esperienze sensoriali non preleviamo certi complessi di impressioni ricorrenti (in parte in connessione con impressioni sensoriali che vengono interpretate come segni delle esperienze sensoriali altrui), e attribuiamo loro un significato, il significato di oggetto corporeo. Considerato da un punto di vista logico, questo concetto non si identifica con la totalità delle impressioni sensoriali cui si riferisce, ma rappresenta una creazione arbitraria della mente umana (o animale). D’altra parte, questo concetto trae il proprio significato e la propria giustificazione esclusivamente dalla totalità delle impressioni sensoriali che noi gli associamo. Il secondo passo consiste nel fatto che nella nostra concezione teorica (che a quella che determina le nostre previsioni) noi attribuiamo a questo concetto di oggetto materiale un significato in gran parte indipendente dalle impressioni sensoriali che hanno presieduto al suo sorgere. Questo è ciò che intendiamo quando attribuiamo all’oggetto corporeo “un’esistenza reale”. […] D’altra parte, la costruzione degli oggetti reali e in generale l’esistenza del “mondo reale”, posseggono una giustificazione solo in quanto sono collegati con le impressioni sensoriali tra le quali essi stabiliscono una connessione mentale. […[ Una delle grandi scoperte di Immanuel Kant fu il riconoscimento che la costruzione di un mondo esterno reale sarebbe priva di senso senza la sua comprensibilità. Nel parlare qui di “comprensibilità”, l’espressione viene usata nel suo significato più ristretto. Essa, in generale, implica la produzione di un qualche tipo di ordine fra le impressioni sensoriali, tale ordine essendo prodotto dalla creazione di concetti generali, dalle relazioni fra questi concetti, e dalle relazioni fra i concetti e l’esperienza sensoriale, relazioni determinate in ogni maniera possibile. E’ in questo senso che il mondo delle nostre esperienze sensoriali è comprensibile. Il fatto che sia comprensibile è davvero un miracolo. Secondo me non s può dire nulla riguardo al modo in cui i concetti devono essere costruiti e collegati, come pure riguardo al modo in cui noi dobbiamo coordinarli con le esperienze. Il successo dei risultati rappresenta il fattore determinante che ci guida nella creazione di un tale ordine fra le esperienze sensoriali. Tutto ciò che è necessario è l’enunciazione di un gruppo di regole, poiché senza tali regole l’acquisizione della conoscenza nel senso desiderato sarebbe impossibile. Si può paragonare tale situazione a quella di un gioco: le regole possono anche essere arbitrarie, ma solo il loro rigore e la loro inflessibile applicazione rendono possibile il gioco. La loro scelta, tuttavia, non sarà mai definitiva: essa varrà solo per un particolare campo di applicazione (in altre parole, non esistono categorie definitive nel senso di Kant). […] Il fine della scienza è, da una parte, la comprensione più completa possibile della connessione fra le esperienze sensoriali nella loro totalità e, dall’altra, il raggiungimento di questo fine mediante l’uso di un numero minimo di concetti e di relazioni primarie (mirando, per quanto è possibile, all’unità logica della rappresentazione del mondo, cioè a tener ristretto il numero di elementi logici). 7b. Guida all’analisi de “I concetti scientifici e la realtà” (Einstein) Scienza e senso comune Secondo Einstein, la scienza sviluppa criticamente il pensiero comune. Ciò non significa che, per fare un esempio, la relatività possa essere intesa immediatamente da tutti, e nemmeno che si possano comprendere i suoi concetti riportandoli alle nostre esperienze quotidiane. La fisica, a differenza della psicologia, si interessa esclusivamente alle esperienze sensoriali dell’uomo, cioè ai dati della conoscenza empirica, per individuarne i rapporti interni necessari: non si occupa, dunque, del significato che i dati possono eventualmente assumere per la psiche umana. Alle esperienze sensoriali, è riconducibile anche il concetto di “realtà esterna”, così come è concepito dal pensiero comune.

La relatività origini

Nel  1905  scrive quattro articoli i cosidetti “Annus Mirabilis Paper”, in uno di questi  “Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento viene esposta per la prima volta la teoria della relatività ristretta.Albert Einstein

la relatività ristretta (in breve)

Per parlare della fisica di Albert Einstein inizio da qualcosa che accade quando Einstein ha già settant’anni. Siamo nel 1949, e negli Stati Uniti si pubblica un volume intitolato Albert Einstein scienziato-filosofo. E’ un libro diviso in tre parti. Da una lettura attenta emerge subito una questione fondamentale, sollevata da fisici come Pauli e Bohr: Einstein è troppo legato alla scienza classica. E si spiega subito dopo: «Se per teoria classica si intende un programma di ricerca, secondo il quale i concetti fondamentali di una teoria scientifica sono creati da funzioni matematiche nel continuo, allora è vero che io aderisco rigidamente a questo programma classico».                                                                                                                                                          Che cos’è il «continuo» evocato da Einstein? Un buon esempio ci viene da ciò che scrisse nella prima metà dell’Ottocento uno scienziato come Faraday. La proposta radicale suggerita da Faraday era di abbandonare sia la nozione di particella materiale estesa nello spazio sia la nozione di spazio geometrico vuoto tra una particella e l’altra. Per spiegare meglio cos’è il continuo, immaginiamo che non ci siano particelle ma punti geometrici, alcuni dei quali funzionano come sorgenti e altri come pozzi delle forze elettriche. L’elettricità esce ed entra, e gli enti geometrici sono uniti da un groviglio di linee di forza, che sono curve geometriche nello spazio, variamente aggrovigliate l’una sull’ altra. Quindi la materia diventa un continuo geometrico incurvato che sostituisce lo spazio euclideo. Einstein riflette sul fatto che quando noi ragioniamo su fenomeni vicini o lontani da noi, usiamo sempre un sistema di coordinate e se un sistema di coordinate è scelto in modo tale che le leggi della fisica siano soddisfatte nella loro forma più semplice, allora le stesse leggi devono essere soddisfatte se vengono riferite a un altro sistema di riferimento diverso dal nostro, che si muove di moto rettilineo uniforme rispetto all’altro sistema. Questo è il principio di relatività che Einstein enuncia nel 1905, insieme a un altro postulato, secondo il quale la velocità della luce nel vuoto è costante e non dipende dalla velocità della sorgente che emette la luce. Faraday nel 1831 aveva condotto alcuni esperimenti usando un magnete e un filo di rame piegato a cerchio. E aveva dimostrato che, se i due oggetti sono in moto relativo l’uno rispetto all’ altro, dentro il filo di rame circola una corrente elettrica. Einstein riprende questi risultati sperimentali e li legge in modo nuovo. questi fenomeni si producono se, e solo se, c’è moto relativo tra i due oggetti. Questo vuol dire che dobbiamo eliminare l’idea di uno spazio assoluto, di un moto assoluto: esiste soltanto un moto relativo.

1postulato:

le leggi e i principi della fisica hanno la stessa forma in tutti i sistemi di riferimento inerziali

Il primo caposaldo può considerarsi un’estensione del principio di relatività galileiano. Secondo il principio di relatività formulato da Galileo Galilei, all’interno di un sistema rigido in moto rettilineo uniforme, nessuna esperienza meccanica (come, per esempio, la caduta di un grave) può rivelarci se tale sistema si trovi in stato di quiete o di moto rettilineo uniforme. Einstein aggiunge che non può rivelarcelo neppure un’esperienza elettromagnetica, come la propagazione della luce. IN questo modo alle “trasformazioni di Galileo” sostitui le “trasformazioni di Lorentz”,che il fisico Lorentnz formulo (e che furono riviste da Henri Poincaré ) per spiegare il  comportamento delle onde elettromagnetiche.

Per velocità molto piccole rispetto a quella della luce, le trasformazioni di Lorentz si riconducono a quelle di Galileo, infatti gli effetti relativistici di contrazione/dilatazione dei tempi e degli spazi non possono essere comunemente osservati, ciò viene definito “Limite Galileiano”

2POSTULATO:

la velocità è la stessa in tutti i sistemi di riferimento inerziali, indipententemente dal moto del sistema stesso o della sorgente da cui la luce è emessa.

il secondo postulato conferma quanto già ricavato dalle equazioni di Maxwell, secondo le quali la velocità della luce dipende da valori costanti relativi al mezzo di propagazione e non dal moto relativo dei sistemi di riferimento. In realtà, come ha spiegato successivamente Einstein, l’unico principio fondante della teoria può essere considerato in effetti quello di relatività, o indipendenza delle leggi, in quanto l’invarianza della velocità della luce ne è una conseguenza. Infatti Il postulato di relatività ovviamente esclude il concetto di etere, non solo come mezzo che trasmette la luce (sostituito dal campo elettromagnetico), ma anche come riferimento assoluto; da questo consegue che, se ogni osservatore inerziale non può dire a ragione di essere fermo rispetto a un ipotetico etere, cade definitivamente il concetto di spazio assoluto. 

Tempo relativo

secondo Einstein bisogna abbandonare l’idea dello spazio assoluto e del moto assoluto. E abbandonare anche l’idea che nello spazio assoluto ci sia un etere, all’ epoca chiamato «etere luminifero». I due postulati del principio di relatività e del principio della costanza della velocità della luce, sono invarianti per sistemi di riferimento in moto rettilineo uniforme. Le equazioni del campo elettromagnetico di Maxwell sono invarianti per queste trasformazioni, ma quelle della meccanica no. Bisogna quindi cambiare la forma delle leggi di Galileo e di Newton. Questo porta subito Einstein a criticare alcune nozioni della scienza classica, nel suo articolo: «il treno arriva alle ore sette» Einstein invitava il lettore a riflettere su un esperimento. Immaginiamo di essere in una stanza dalle pareti completamente trasparenti. La nostra stanza si sta muovendo nello spazio con una certa velocità costante, al centro della stanza abbiamo posizionato una sorgente di luce, che quando viene accesa lancia un segnale luminoso contro la parete di fronte a noi e uno verso la parete alle nostre spalle. Se questa sorgente di luce è al centro della stanza, quando viene accesa vediamo che la luce arriva su entrambe le pareti simultaneamente, con velocità c. Adesso immaginiamo di essere fuori dalla stanza. Siamo in quiete, la stanza ci passa davanti con una certa velocità v e osserviamo lo stesso fenomeno. Vediamo che il segnale luminoso arriva prima contro la parete che si sta avvicinando a noi, mentre sulla parete opposta, che si sta allontanando con la stessa velocità, arriva dopo. Quindi l’idea secondo la quale cambiando i sistemi di riferimento il tempo non cambia è da abbandonare.

Simultaneità

la simultaneità è l’attributo di due o più eventi che si verificano nel medesimo istante. Secondo la Fisica Classica, la simultaneità era una proprietà assoluta degli eventi, indipendente dal sistema di riferimento utilizzato,invece il successivo modello spaziotemporale elaborato da Albert Einstein afferma che è una caratteristica relativa, dipendente dal sistema di riferimento utilizzato per descrivere gli eventi.

In sostanza, secondo Einstein due o più eventi possono essere simultanei per un osservatore e non simultanei per un altro (in modo relativo), mentre il vecchio modello affermava che, se due o più eventi sono simultanei, lo sono per tutti gli osservatori indifferentemente, mentre se non sono simultanei, non lo sono per nessuno degli osservatori stessi (in modo assoluto).

Spazio relativo

Abbiamo appena visto che la critica einsteiniana della simultarieità coinvolge tutta quanta la nozione di tempo: il tempo diventa relativo rispetto all’osservatore, come anche lo spazio. lo ho in mano, dice Einstein, una sbarretta rigida, e sono in quiete rispetto a essa. Se misuro la lunghezza della sbarretta quando questa è in movimento rispetto a me, trovo una lunghezza differente rispetto a quando era ferma. Quindi anche lo spazio dipende dallo stato di movimento degli osservatori. Il grande messaggio del 1905 è questo. Quando un orologio è in movimento nello spazio, il suo ritmo rallenta. Nel caso ipotetico che la sua velocità sia coincidente con quella della luce, il tempo non scorre più. La lunghezza di una sbarra in movimento nello spazio dipende dalla sua velocità rispetto a me: quanto più la velocità aumenta e si avvicina a quella della luce, tanto più la sbarretta si accorcia. Se arrivasse alla velocità della luce, avremmo una sbarretta di lunghezza zero. Nella nostra esperienza quotidiana del mondo non ci rendiamo conto degli effetti relativistici. Infatti, come caso limite, per velocità molto basse rispetto a quella della luce vale la meccanica classica.

E=mc²

La teoria di Einstein porta, poi, a un’altra singolarissima conseguenza: all’asserzione, cioè, della convertibilità reciproca di massa ed energia. La materia, in certe condizioni, scompare e diventa energia. La vecchia distinzione della meccanica classica fra la massa, dotata di peso e tangibile, e l’energia, imponderabile e invisibile, è superata. Secondo Einstein, infatti, l’energia corrisponde al prodotto della massa per il quadrato della velocità della luce (c): E = mc 2 .

E = mc2 è l’equazione che stabilisce l’equivalenza e il fattore di conversione tra l’energia e la massa di un sistema fisico.“E” indica l’energia contenuta o emessa da un corpo, “m” la sua massa e “c” la costante velocità della luce nel vuoto.Venne enunciata da Albert Einstein nel 1905 nell’ambito della relatività ristretta, benché non compaia nel primo articolo sulla teoria del giugno, ma in un secondo del settembre intitolato “L’inerzia di un corpo dipende dal suo contenuto di energia?“È probabilmente la più famosa formula della fisica, grazie all’intreccio di novità, semplicità ed eleganza.la massa, considerata isolatamente, non si conserva ma è soggetta a continue variazioni; in particolare aumenta di una quantità pari a E/c² quando assorbe energia (radiazione elettromagnetica), mentre diminuisce quando perde energia, ad esempio emettendo fotoni; in questo caso alla quantità di massa scomparsa corrisponde un’energia emessa pari a mc²;

  1. dalla 1 consegue che la massa non è altro che una forma di energia;
  2. qualsiasi corpo a riposo possiede un’energia per il solo fatto di avere una massa; questa energia di riposo si indica con la formula  =  ed è posseduta sia dalle particelle atomiche e subatomiche sia dai corpi macroscopici.
  3. la conservazione dell’energia meccanica ricomprende, oltre all’energia cinetica e all’energia potenziale, anche la massa quale ulteriore forma di energia; si ottiene così l’energia totale meccanica del corpo, proporzionale alla massa a riposo.[2]

La formula prende in considerazione:

  • E: rappresenta l’energia meccanica, potenziale più cinetica, espressa in joule (= N•m = W•s = kg•m²/s²);
  • m: rappresenta la massa a riposo, espressa in chilogrammi (kg);
  • c: rappresenta la velocità della luce nel vuoto, espressa in m/s: 299 792 458 m/s, generalmente approssimata a 300 000 000 m/s (3 × 108 m/s). Pertanto c2 = 9 × 1016 m²/s².
  • È quindi comprensibile come la concezione einsteiniana getti una luce unificante sulla realtà fisica. La massa è, in sostanza, una forma di energia estremamente concentrata che in determinati processi fisici può essere liberata (es. massa solare, centrali atomiche, decadimento di materiali radioattivi, emissione di radiazione elettromagnetica da parte di atomi e corpi materiali), così come l’energia può trasformarsi in materia, come si verifica negli acceleratori di particelle e nella collisione di fotoni. All’inizio del paragrafo si è detto che l’equivalenza tra massa ed energia fa pensare alle due facce della stessa “medaglia”; ma poiché la massa è una forma di energia, si può ora precisare che questa “medaglia” sia, in ogni caso, quella dell’energia.

Prima del 1905 esistevano due leggi (o princìpi) di conservazione ben distinte e separate: la legge di conservazione della massa, scoperta da Lavoisier, e la legge di conservazione dell’energia (primo principio della termodinamica), alla cui scoperta hanno contribuito, nella seconda metà del 1800, diversi scienziati (Joule, Carnot, Thomson, Clausius e Faraday): “nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma”. Einstein ha unificato le due leggi in un unico principio di conservazione, che coinvolge unitariamente tutti i processi fisici di trasformazione della massa in energia e viceversa, dato che l’una può trasformarsi nell’altra secondo una esattissima relazione matematica. Ciò che resta sempre costante sul nostro piccolo pianeta e nell’universo è la somma di massa ed energia. Con Einstein è nato, quindi, il principio di conservazione della massa-energia.

Relativita generale o speciale

La teoria della relatività speciale interessa i moti rettilinei uniformi e dipendenti dall’inerzia. Ma più tardi, nel 1916, Einstein pensa di allargare la sua teoria anche ai moti curvilinei e accelerati, formulando la teoria della relatività generale. Secondo la teoria della relatività generale, la materia incurva lo spazio-tempo, facendogli perdere il suo carattere euclideo e rendendo lo simile allo spazio descritto dalla geometria di Riemann. Nello spazio-tempo cosmico, un corpo in movimento segue una traiettoria curva, cioè procede di moto curvilineo e non rettilineo. In base a tale teoria, un proiettile di potenza infinita, dopo un certo percorso, tornerebbe al punto iniziale di partenza, ma dalla direzione opposta. Lo spazio-tempo cosmico è dunque finito (perché, percorrendolo in una direzione, si finirebbe col ritornare dalla direzione opposta), ma nello stesso tempo illimitato. La teoria della relatività generale rende non più necessaria la «forza di gravitazione» di Isaac Newton, infatti, in base alla teoria di Einstein, le orbite circolari dei pianeti nello spazio non sono determinate dalla forza di gravitazione, ma dall’incurvarsi dello spazio-tempo in presenza della materia.

Così nel 1915, Einstein propone un’equazione oggi nota come equazione di campo di Einstein: tale equazione descrive la gravità come curvatura dello spaziotempo ed è il cuore della relatività generale. Oltre a risolvere i conflitti tra le due teorie, la nuova teoria gravitazionale risulta anche essere più accurata di quella newtoniana nel prevedere la precessione del perielio di Mercurio.

L’equazione di campo di Einstein è una equazione differenziale alle derivate parziali non lineare, per la quale non esiste una formula risolutiva generale. Solo un anno dopo, nel 1916, l’astrofisicoKarl Schwarzschild trova una particolare soluzione all’equazione, oggi nota come spaziotempo di Schwarzschild

Principio di equivalenza

Nel 1908, Einstein enuncia un principio di equivalenza che darà successivamente un forte impulso allo sviluppo della teoria.[4] Come confermato dall’ Esperienza di Eötvös e dagli esperimenti successivi, la massa inerziale  e la massa gravitazionale  di un corpo risultano avere lo stesso valore, cioè . Questa uguaglianza è un fatto sperimentale che non discende da alcun principio della fisica classica; i ruoli di queste due quantità sono infatti ben diversi: la massa inerziale misura quanto il corpo si opponga all’applicazione di una forza, come enunciato dal secondo principio della dinamica e cioè dalla formula

Forza=massa*accellerazione

La massa gravitazionale misura invece la capacità di un corpo di attrarne un altro, di massa , secondo la legge di gravitazione universale

Foza=(G*M*M)/r^2

Einstein studia le conseguenze della relazione  formulando il seguente esperimento mentale. Si consideri un osservatore situato all’interno di una stanza chiusa. Se la stanza è poggiata sulla superficie terrestre, l’osservatore percepisce una forza verso il basso dovuta alla gravità: come mostrato in figura, lanciando una palla in terra potrà misurarne l’entità. Se la stanza è invece nello spazio, lontana da campi gravitazionali, contenuta in un razzo che sta accelerando verso l’alto, l’osservatore percepisce anche in questo caso una forza verso il basso: questa forza, dovuta all’inerzia del suo corpo, è la stessa forza che percepiamo normalmente alla partenza e all’arrivo in un ascensore. L’uguaglianza  ha come conseguenza il fatto seguente: l’osservatore non può in alcun modo capire se l’accelerazione che sente sia dovuta ad un campo gravitazionale o ad un’accelerazione.

Analogamente, se la stanza è in caduta libera verso (ad esempio) la Terra, l’osservatore al suo interno non percepisce alcuna forza di gravità: se lascia cadere una moneta, osserva che questa non cade al suolo ma resta sospesa a mezz’aria. L’osservatore non ha nessuno strumento per capire se è in una zona dell’universo senza campi gravitazionali, o se invece sta cadendo verso un pianeta.

Equazione DI campo

Matematicamente, la relatività generale descrive lo spazio-tempo come uno spazio pseudo-riemanniano[5] a 4 dimensioni; l’equazione di campo lega la curvatura in un punto  dello spazio-tempo al tensore energia impulso  (Il tensore energia impulso  Esso descrive il flusso di energia e quantità di moto associate ad un campo. )che descrive la densità e il flusso di materia e di energia in X

3. Le teorie del tutto

Più recente è l’elaborazione della teoria del tutto, la quale, nonostante il nome, pretende di spiegare soltanto le  particelle elementari. Secondo questa teoria, o almeno secondo alcune sue versioni, tutto ha avuto origine dal nulla: una conferma sarebbe il fatto che nell’universo le cariche positive bilanciano con esattezza le cariche negative. Il fatto, apparentemente contrario, che la materia non è controbilanciata da una pari quantità di antimateria potrebbe, invece, spiegarsi se quelle che oggi sono ritenute particelle elementari possedessero, invece una struttura articolata. Le teorie del tutto non possono, attualmente, essere verificate sperimentalmente. Laplace suggerì che un intelletto sufficientemente potente potrebbe, se conoscesse la velocità e la posizione di ogni particella in un dato istante, assieme alle leggi della natura, calcolare la posizione di ogni particella in un altro istante:

« Un’intelligenza che in un certo istante conoscesse tutte le forze che mettono la natura in moto e tutte le posizioni di tutti gli oggetti la quale natura è conosciuta, se questo intelletto fosse anche abbastanza vasto per analizzare questi dati, raccoglierebbe in una singola formula i movimenti dai più grandi corpi dell’universo a quelli del più piccolo atomo; per una tale intelligenza niente sarebbe incerto e il futuro, come il passato, sarebbe il presente ai suoi occhi. »

4. Il Big Bang

La cosmologia del XX secolo si basa sulla relatività, sulla fisica quantistica e su quella delle particelle.Lo scienziato Edwin Hubble analizzando le radazioni emesse dalle galazzie, nota, nel 1929, uno “spostamento verso il rosso”, cioè sarebbe spiegabile con la dilatazione progressiva delle galassie. L’ipotesi che ne scaturisce è che, in origine, materia e radiazioni dovevano essere concentrate in un unico punto. Così Georg Gamow, alla fine degli anni Quaranta, formula per la prima volta la teoria del Big Bang: Circa quindici miliardi di anni fa, la materia inizialmente concentrata in un punto di materia della dimensione di 10-33 centimetri, sarebbe poi esplosa nei primi stadi della vita dell’universo, e continua a espandersi allontanandosi dal centro. Esistono, oggi, diversi modelli del Big Bang. L’idea espressa da alcuni studiosi dei nostri giorni, come Stephen Hawking, è che ogni teoria descrittiva esistente non risolve il problema del perché: una completa teoria del tutto dovrebbe dare anche le ragioni per cui l’universo esiste.Hawking ha approfondito la teoria del Big Bang e ha prodotto innovativi contributi sulla questione dei “buchi neri”. Questi ultimi sono corpi celesti dotati di un campo gravitazionale così intenso da impedire a qualsiasi oggetto, compresa la luce, di sfuggire alla loro attrazione. Di conseguenza, essi non possono essere mai osservati direttamente e per questo sono chiamati “neri”. Di recente Hawking ha rimesso in discussione la sua teoria, avanzando dubbi e perplessità sulle sue stesse precedenti convinzioni. Hawking non ha mancato di prendere posizione anche nei confronti del rapporto fra fisica e religione. Consapevole che spesso Dio è stato utilizzato dagli uomini per spiegare ciò che la scienza non poteva chiarire e che poi le nuove scoperte hanno relegato Dio in spazi sempre più stretti. Egli lo intende come colui che ha posto le condizioni iniziali dell’esistenza dell’universo: per Hakwing  la scienza è in grado di spiegare il “come” e non il ” perché” dell’universo. Chi ha bisogno di rispondere a quest’ultima domanda non può che rivolgersi alla fede.

4a. Una teoria unificata del tutto (Hawking)

Ma può esistere veramente una teoria unificata del tutto? O ciò che stiamo inseguendo è soltanto un miraggio? Sembra che le possibilità siano tre.

• Esiste realmente una teoria unificata completa, che un giorno, se siamo abbastanza intelligenti, riusciremo a scoprire.

• Non esiste una teoria definitiva dell’universo, ma solo un’infinita serie di teorie che lo descrivono in modo sempre più accurato.

• Non esiste alcuna teoria dell’universo. Al di là di un certo limite, gli eventi si verificano in modo casuale e arbitrario e non possono essere predetti.

Alcuni argomenterebbero a favore della terza possibilità sostenendo che, se ci fosse un insieme completo di leggi, verrebbe violata la libertà di Dio di cambiare parere e intervenire nel mondo. E’ un pò come il vecchio paradosso: Dio potrebbe creare una pietra così pesante da non essere in grado di sollevarla? Ma l’idea stessa che Dio possa voler cambiare parere è un esempio di quella fallacia, evidenziata da sant’Agostino, che consiste nell’immaginare Dio come un essere esistente nel tempo. Il tempo, invece, è una proprietà che si riferisce esclusivamente all’universo che Dio ha creato; e, presumibilmente, Egli, quando lo creò, sapeva ciò che voleva. Con l’avvento della meccanica quantistica, siamo giunti a comprendere che gli eventi non possono essere predetti con un’accuratezza assoluta, ma che rimane sempre un certo grado di indeterminazione. In tempi moderni, abbiamo rimosso la terza possibilità ridefinendo lo scopo della scienza: il nostro obiettivo è oggi quello di formulare un insieme di leggi che ci permettano di predire gli eventi solo fino al limite fissato dal principio di indeterminazione. La seconda possibilità, che è quella di una serie infinita di teorie sempre più perfezionate, è in accordo con tutta l’esperienza che abbiamo finora maturato. Non ci sarebbe molto di che stupirsi se le nostre attuali grandi teorie unificate si rivelassero inadeguate una volta messe alla prova con acceleratori di particelle più grandi e più potenti di quelli che abbiamo oggi a disposizione. Sembra, tuttavia, che la gravità possa porre un limite a questa serie di “scatole cinesi”. Se avessimo una particella con un’energia superiore alla cosiddetta energia di Planck, pari a 1019 GeV ,la sua massa sarebbe così concentrata che formerebbe un piccolo buco nero. Pare quindi che, procedendo verso energie sempre più elevate, la serie di teorie via via più raffinate dovrebbe infine incontrare un limite: ci dovrebbe essere, pertanto, una qualche teoria definitiva dell’universo. Ovviamente, l’energia di Planck è qualcosa di incredibilmente lontano dalle energie che possiamo attualmente produrre in laboratorio. Per superare questo abisso, occorrerebbe un acceleratore di particelle più grande dell’intero sistema solare. Tuttavia, energie di questo livello devono essersi dispiegate nei primissimi stadi della vita dell’universo. Per Hawking, questa teoria riuscirebbe a spiegare non solo il come, ma anche il perché dell’universo stesso.

Hawking avanza provocatoriamente tre possibilità intorno alle teorie del tutto. Forse esiste una sola di queste teorie, quella completa e pienamente coerente; essa costituirebbe l’unificazione della fisica. La seconda possibilità poggia sulla constatazione che non c’è mai stata una scienza “definitiva” e che non c’è ragione di pensare che ci possa essere in futuro. Secondo questa visione, la spiegazione scientifica si sviluppa avvicinando asintoticamente la verità. La terza teoria nega, per ragioni di principio, che una teoria del tutto sia possibile: se gli eventi sono indeterminati in se stessi, non potranno mai essere spiegati in misura piena e perfetta. Le motivazioni teologiche che supportano la terza ipotesi, secondo la quale si deve tenere presente la libertà dell’azione di Dio e ammettere che egli possa “cambiare idea”, sono state smentite fin dall’epoca di Agostino, come lo stesso Hawking rileva sinteticamente.  Secondo alcuni cosmologi, il progetto della scienza cosmologica, e cioé la pretesa di poter studiare l’intero universo, è contraddittorio. John D.Barrow ha affermato che questa disciplina può esprimersi solo a proposito dell’universo visibile e non dell’universo intero. Se l’universo è infinito, noi non possiamo che ammettere la possibilità di infinite situazioni e  la casualità del tutto. La difficoltà di ogni cosmologia sta nella scelta delle condizioni iniziali che possono essere definite soltanto in base a criteri arbitrari.L’intera teoria cosmologica regge, o cade, a seconda della plausibilità di queste, sulle quali, però, non è possibile avere conferme empiriche. Le teorie cosmologiche sono in accordo, almeno, nel prevedere che l’universo è destinato a finire. A seconda delle differenti valutazioni, la sua fine potrebbe derivare da un’espansione indefinita, a cui seguirebbe una lenta degradazione, oppure da un’inversione del moto che lo riporterà alla condizione iniziale, antecedente al Big Bang.

Energia nucleare

Con energia nucleare (detta anche energia atomica), si intendono tutti quei fenomeni in cui si ha produzione di energia in seguito a trasformazioni nei nuclei atomici: tali trasformazioni sono dette “reazioni nucleari“.

L’energia nucleare è una forma di energia che deriva da profonde modifiche della struttura stessa della materia. Insieme alle fonti rinnovabili e le fonti fossili, è una fonte di energia primaria, ovvero è presente in natura e non deriva dalla trasformazione di un’altra forma di energia.

La storia dell’energia nucleare prende avvio con le scoperte sulla radioattività sul finire del XIX secolo. La prima persona che intuì la possibilità di ricavare energia dal nucleo dell’atomo fu lo scienziato Albert Einstein nel 1905. In seguito gli sviluppi scientifici della fisica nucleare nella prima metà del XX secolo hanno portato alla realizzazione del primo reattore sperimentale-dimostrativo funzionante da parte di Enrico Fermi negli USA il 2 dicembre del 1942 e alle successive tristemente note vicende belliche della seconda guerra mondiale con lo sgancio delle bombe atomiche su Hiroshima Nagasaki. Nel 1961 i russi sperimentarono la bomba Zar, che raggiungeva i 50 megatoni, cioè 3125 volte quella di Hiroshima. Solo nella seconda metà del secolo scorso si prese l’iniziativa di sfruttare l’energia nucleare anche a fini civili per la produzione di energia elettrica, ma per tutto il corso della Guerra Fredda rimarrà duplice l’interesse per l’energia atomica sia sul fronte militare che civile con gli Stati interessati a portare avanti politiche energetiche nucleari, in gran parte a proprie spese, per il raggiungimento di paralleli e precisi obiettivi militari di superpotenza.

Enrico Fermi (Roma29 settembre 1901 – Chicago28 novembre 1954)

Progettò e guidò la costruzione del primo reattore nucleare a fissione, che produsse la prima reazione nucleare a catena controllata. Fu uno dei direttori tecnici del Progetto Manhattan, che portò alla realizzazione della bomba atomica nei laboratori di Los Alamos. È stato inoltre tra i primi ad interessarsi alle potenzialità della simulazione numerica in ambito scientifico, nonché l’iniziatore di una seconda scuola di fisici sia in Italia, sia negli Stati Uniti d’America.

Fermi ricevette nel 1938 il Premio Nobel per la fisica, per “l’identificazione di nuovi elementi della radioattività e la scoperta delle reazioni nucleari mediante neutroni lenti“.

Il Progetto Manhattan (la cui componente militare fu indicata Manhattan District in sostituzione del nome in codice ufficiale, Development of Substitute Materials) a cui partecipò Fermi , fu la denominazione data ad un programma di ricerca e sviluppo in ambito militare che portò alla realizzazione delle prime bombe atomiche durante la seconda guerra mondiale. Fu condotto dagli Stati Uniti d’America con il sostegno di Regno Unito e Canada. Dal 1942 al 1946 il programma fu diretto dal generale Leslie Groves del corpo del Genio militare degli Stati Uniti.

Il progetto diede vita alle prime Armi nucleari della storia

Con Bomba atomica  comunemente ci riferiamo alla bomba a fissione nucleare, un ordigno esplosivo la cui energia è prodotta dalla reazione a catena di fissione nucleare. Si tratta di un processo di divisione del nucleo atomico di un elemento pesante in due o più frammenti, che può avvenire a “cascata” in alcuni isotopi rari. Nella bomba atomica questo avviene in modo “incontrollato”, liberando quindi una enorme quantità di energia in un tempo brevissimo.

Il fondamento teorico è il principio di equivalenza massa-energia, espresso dall’equazione E=mc² prevista nella teoria della relatività ristretta di Albert Einstein. Questa equivalenza generica suggerisce in linea di principio la possibilità di trasformare direttamente la materia in energia o viceversa. Einstein non vide applicazioni pratiche di questa scoperta. Intuì però che il principio di equivalenza massa-energia poteva spiegare il fenomeno della radioattività, ovvero che certi elementi emettono energia spontanea.

Nella storia

Il primo ordigno nucleare della storia era una bomba a implosione che venne fatta detonare nel corso del Trinity test, condotto a 56 km a sud-est di Socorro, Nuovo Messico, presso l’Alamogordo Bombing and Gunnery Range il 16 luglio 1945. Nel team, guidato da Robert Oppenheimer, lavorava anche lo scienziato italiano Enrico Fermi. Il capo dei militari era il generale Leslie Groves. Durante la seconda guerra mondiale furono sviluppati due tipi di bomba atomica. Fu realizzata una relativamente semplice gun-type fission weapon 

Le prime armi di questo tipo, ovvero Little Boy, una bomba gun type, e Fat Man, una bomba a implosione, furono rispettivamente usate per bombardare le città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki.  Negli anni dell’immediato secondo dopoguerra, il Progetto Manhattan condusse test nucleari sull’atollo di Bikini nell’ambito dell’Operazione Crossroads, sviluppò nuove armi, promosse lo sviluppo del United States Department of Energy national laboratories, sostenne la ricerca medica nel campo della radiologia e gettò le basi della marina nucleare.

Nel secondo dopoguerra l’arma atomica fu acquisita da tutte le principali potenze mondiali: l’URSS l’ottenne nel 1949, il Regno Unito nel 1952, la Francia nel 1960 e la Cina nel 1964. In seguito a questa situazione si venne a creare un clima cosiddetto di “guerra fredda“, in cui i due blocchi erano consapevoli di potersi distruggere a vicenda con il solo utilizzo delle armi atomiche (dottrina della distruzione mutua assicurata, vedi anche equilibrio del terrore). Inoltre le armi nucleari divennero sempre più complesse, dando origine ad una notevole varietà di ordigni. Per controllare lo sviluppo degli arsenali atomici nel 1957 venne inoltre creata l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (con sede a Vienna), nell’ambito del progetto americano “atomi per la pace”

“PERCHE’ LA GUERRA?” CARTEGGIO EINSTEIN-FREUD

Nel 1931 l’ “Istituto internazionale di cooperazione intellettuale” di Parigi della Società delle Nazioni propose ai più noti intellettuali dell’epoca di iniziare una corrispondenza epistolare su diversi temi. Il  contesto storico è quello post bellico, successivo al primo conflitto mondiale,  latore di milioni e milioni di morti, e in un’atmosfera di preoccupazione per l’idea che una nuova guerra è alle porte fomentata soprattutto per l’affermarsi di diversi movimenti, come il nazismo in Germania, che con l’utilizzo della violenza promuovono la guerra.

La società delle nazioni, organo precursore delle nostre Nazioni Unite, affiderà l’incarico al più grande scienziato del pianeta, Albert Einstein, da sempre contraddistintosi per le sue posizioni pacifiste, l’avversione contro ogni tipo di nazionalismo sentendosi parte prima di tutto della “razza umana”. Dopo l’invito lo scienziato deciderà di discutere delle “origini della guerra” delineando come suo interlocutore Sigmund Freud, celeberrimo studioso della psiche umana, pacifista ed ebreo come Einstein al quale si riferirà con l’appellativo di “amico dell’umanità”. Einstein nasce in Germania ma quando il 30 gennaio 1933 apprenderà dell’ascesa di Hitler come cancelliere devierà il viaggio di ritorno dal Belgio, negli stati Uniti dove risiederà fino alla sua morte, perché avverso al governo hitleriano per la sua origine ebraica e la sua avversione alla dittatura.

Il carteggio denominato “Perché la guerra?” ha inizio il 30 luglio 1932 e le posizioni condivise sono:

1. La prima è che le guerre traggono origine da una naturale pulsione di vit e di morte nel’uomo (Eros e Thantos). Una pulsione distruttiva che, sostiene Freud, è fondante della natura umana accanto alla pulsione erotica, la quale invece induce all’unione e all’amore. Entrambi sono convinti che questa pulsione alla violenza possa essere governata, ma non sconfitta, dall’esercizio della ragione.

2. La seconda posizione è che violenza e diritto non sono agli antipodi: il diritto è l’evoluzione della violenza.  Esso è in grado di mitigare la violenza individuale ma non ha di bandirla per sempre dalla società.

3. La terza è una posizione politica. Entrambi sono convinti che la guerra possa essere eliminata solo se i singoli stati cedono una parte sostanziale della loro sovranità ad un’organizzazione sovranazionale.

LETTERA DI EINSTEIN PER FREUD

Nella propria lettera Einstein si concentra sul carattere scientifico della la questione relativa alla possibilità di “liberare gli uomini dalle fatalità della guerra”, lasciando così a Freud l’occasione di applicare le sue conoscenze sulla vita istintiva degli uomini. Definendosi immune da sentimenti nazionalistici, si pone l’obbiettivo di affrontare il problema da un punto di vista esteriore, cioè organizzativo: egli propone la creazione di una autorità legislativa e giudiziaria superiore agli Stati i quali devono rispettare i decreti di tale autorità e attuare tutti i provvedimenti che essa ritenesse necessari per prevenire i conflitti.  Qui s’incontra la prima difficoltà, ovvero, La necessità che gli stati rinuncino a parte del loro potere delegato alla suddetta organizzazione sovranazionale e l’impossibilità di tale azione sebbene in vista del conseguimento della sicurezza comune.

Ed è per tale motivo che la Società delle Nazioni ha fallito il suo mandato in quanto ostacolata da vari fattori, primo fra tutti la sete di potere delle classi dominanti che agiscono in vista dei propri vantaggi economici.

Ma Einstein si pone un ulteriore domanda: Come è possibile che la classe dominante, sebbene in minoranza, sia in grado di assoggettare la volontà della grande massa del popolo che dalla guerra riceve soltanto sofferenze? Una risposta da lui proposta è che la classe dominante controlla i principali mezzi di comunicazione ( scuola, stampa, organizzazioni religiose e non ….) riuscendo in questo modo a plasmare l’ideologia del popolo ridotto così a mero strumento della sua politica. E quando lo scienziato si chiede come sia possibile che il popolo si faccia manipolare a tal punto da farsi uccidere, la sua spiegazione è che nell’uomo esiste un istinto distruttivo che annebbia totalmente la ragione ed il buon senso ( psicosi collettiva). E conclude la lettera chiedendo a Freud se sia possibile fare in modo che le masse resistano a tale psicosi.

RISPOSTA DI FREUD A EINSTEIN

Freud, innanzitutto si preoccupa di analizzare il rapporto tra diritto e forza, sostituendo quest’ultimo con “violenza”. Infatti la violenza è ciò che determina il possesso o l’appartenenza di qualcosa o qualcuno.

Nello stato originario vale il predominio del più forte poiché in base  maggiore forza muscolare si decideva quale volontà dovesse essere realizzata, ma presto la forza bruta è accresciuta e sostituita dall’uso di certi strumenti, le armi, che con stabiliscono la supremazia della superiorità intellettuale rispetto alla forza benché le finalità della lotta restino le stesse: ovvero, la sconfitta di una delle due parti. Il sistema più vantaggioso per piegare l’avversario al proprio volere consiste nella sua completa eliminazione: cioè la morte. Questo sistema ha due vantaggi: l’avversario non può riprendere le ostilità e appellarsi alla vendetta e, secondo, il suo destino distoglie gli altri dal seguire il suo esempio. Talvolta la violenza non uccide il nemico, ma si accontenta di sottometterlo, sfruttandolo come schiavo, in questo modo il vincitore dovrà rimanere vigile e pronto al combattimento, rinunciando alla sua sicurezza, poiché lo schiavo, spinto dal desiderio di vendetta, attende il momento propizio per ribellarsi.

Questo è il predominio del più forte nello stato originario, tuttavia noi oggi pensiamo che diritto e violenza siano agli antipodi, ma in realtà, il primo è l’evoluzione del secondo perche con tempo si è passati dalla violenza del singolo alla violenza della comunità, grazie alla consapevolezza che lo strapotere di un solo padrone può essere combattuto dall’unione dei più deboli: il diritto della maggioranza si oppone alla violenza del singolo. Tuttavia perché questo avvenga la comunità deve organizzarsi stabilmente, istituendo organi che veglino sull’osservanza delle leggi, ma non solo, perché  fondamento di una comunità non è unicamente il diritto, ma anche i legami emotivi, come il  sentimento di appartenenza tra i membri, che possono tenere unita una comunità anche quando non ci sia la reale esigenza di controllare combattere un singolo.

Tuttavia affinché vi sia coesione sociale è necessario garante l’uguaglianza sociale ma ciò non è possibile poiché una comunità comprende sempre elementi di forza disuguale, uomini e donne, genitori e figli, e, in conseguenza della guerra, vincitori e vinti che si trasformano in padroni e schiavi. Nel momento in cui nella comunità si manifestano disuguaglianze fra i suoi membri, si creano due fonti di inquietudine interna: la prima delle due fonti consiste nel tentativo del padrone di elevarsi al di sopra di tutti, tornando, dunque, al regno della violenza; la seconda consiste nello sforzo dei più deboli di opporsi al padrone, per vedere riconosciuti quei diritti e quei doveri che sono uguali per tutti. Entrambi i casi portano all’insorgere di conflitti causati dall’esigenza di stabilire un nuovo ordinamento giuridico.

Guardando alla storia dell’umanità, essa include una serie ininterrotta di conflitti, decisi attraverso prove di forza; infatti la guerra può essere prevenuta solo nel momento in cui gli uomini si uniscono per costituire un’autorità centrale dotata di una suprema potestà, caratterizzata da un potere autonomo e alla quale tutti gli uomini accettino di obbedire. La Società delle Nazioni costituisce un esempio del tentativo di creare quest’unità, fallito per la mancanza di una sufficiente forza.

Freud giustifica il ricorso alla guerra grazie all’esistenza di due pulsioni: quella dell’odioe morte (Thanatos) e quella erotico- sessuale(eros), intrinseche in ogni uomo. Entrambe le pulsioni sono indispensabili perché i fenomeni della vita dipendono dalla loro conpresenza e dal loro contrasto. L’essenziale scopo della pulsione distruttiva consiste nella rovina dell’individuo. Secondo una visione di tipo psicologico, non è possibile poter sopprimere le inclinazioni aggressive umane, ma è comunque possibile deviarle, valorizzando i legami emotivi, in modo tale che non trovino espressione nella guerra. Tali legami possono essere di due specie: in primo luogo legami d’amore; in secondo luogo, meccanismi d’identificazione, che provocano solidarietà e risvegliano sentimenti comuni. Premettendo che gli uomini sono disuguali e che tale disuguaglianza risulta ineliminabile, si può combattere indirettamente l’inclinazione alla guerra assoggettando la pulsione distruttiva alla “dittatura della ragione”; ma ciò non è più possibile.

In conclusione Freud individua alcuni fattori che provocano nell’uomo indignazione nei confronti della guerra: il primo consiste nella profonda convinzione morale che ogni uomo abbia diritto alla vita, il secondo si fonda sul fatto che la guerra provoca la morte di numero di numerose persone, annientando vite umane; il terzo si origina dal fatto che la guerra pone i singoli individui in condizioni avvilenti, sia sul piano personale sia morale, costringendoli ad uccidere altri individui; infine, non deve essere sottovalutato il fatto che un conflitto provoca, oltre ad un’infinità di conseguenze personali, anche la distruzione di beni e valori materiali. Comunque, nonostante ciò, Freud considera l’incivilimento come la fonte alla quale si devono far risalire tutto il meglio e il peggio dell’uomo.

EINSTEIN E LA BOMBA NUCLEARE

Einstein in principio fu favorevole alla realizzazione della bomba nucleare solo per prevenirne la creazione da parte di Hitler, a tal proposito scrisse anche una lettera al presidente Roosevelt nella quale lo incitava a dar vita ad un programma di ricerca scientifico-tecnologico per sfruttare l’energia nucleare a scopi civili o per la costruzione di bombe più potenti. Roosevelt risposte creando un comitato per studiare la possibilità di imiegare l’uranio nella costruzione dell’arma, comitato che entrerà a far parte del programma Manhattan.

Ma successivamente, lo scienziato, si battè per i test e sperimentalismo militare e si oppose anche al lancio sul Giappone. Con Bertrad Russel pubblicò un Manifesto, alla base della nascente organizzazione non governativa con sede in Canada che supportava lo sviluppo scientifico salvaguardando l’equilibrio pacifico internazione, la Pugwash conferences on science and world affairs, con il quale si incitavano i governanti a prendere in serie considerazioni le conseguenze e l’impatto della bomba atomica  sullo sviluppo della società umana.

Dopo il conflitto fece forte pressione per il disarmo nucleare.

SCIENZA E ARTE: (RIVEDI PUNTI)

  1. Les Damoiselles d’Avignon”(1906) DI PABLO PICASSO: «prospettiva spaccata, frantumata in volumi … incidenti l’uno nell’altro>> rivoluzione spaziale rispetto alla tradizionale prospettiva classica;
  2. Parallelismo fra scienza e arte figurativa del Novecento, influenze reciproche per lo “spirito del tempo” e lo spirito scientifico;
  3. Studi di poincaré sulla simultaneità relativa che influenzarono sia E che P;
  1. Katherine Hayles, che i rapporti tra scienza e arte si dipanano lungo tre fili:

-quello della retorica, con mutuo scambio di registri comunicativi;

-quello dei concetti, con il reciproco scambio di temi, metafore e analogie;

-quello della cultura profonda, con ciò che Eugenio Montale definiva l’oscuro e irrisolvibile pellegrinaggio di idee feconde e di strumenti epistemologici che passano dall’una all’altra e che ordiscono la matrice culturale in cui si muove ciascuno di noi.

E’ possibile riscontrare un parallelismo fra scienze ed arte nel Novecento, così come Einstein ed altri scienziati demolirono le certezze della fisica classica, anche in ambito artistico la concezione classica dello spazio è rivoluzionata.

Nel 1906, appena un anno la pubblicazione degli articoli di Einstein, un giovane pittore spagnolo, Pablo Picasso, 25 anni appena compiuti, dà la prima pennellata a “Les Damoiselles d’Avignon” oggi custodito al Moma (Museum of Modern Art) di New York. Un quadro in cui sono raffigurate cinque ragazze, alcune con volti egiziani, altre con volti ibero-polinesiani. Le cinque Damigelle di Avignone, prostitute, rivivono sulla tela di Picasso in forma affatto nuova: in una «prospettiva spaccata, frantumata in volumi … incidenti l’uno nell’altro», che ce le propone in simultanea sebbene ciascuna viva in una sua dimensione spaziale. Il quadro, a detta di molti storici dell’arte, inaugura la stagione del Cubismo,un’avanguardia secondo la quale  i soggetti  andavano raffigurati come realmente sono e non come appaiono, pertanto non si seguirà più la prospettiva classica  ma una di tipo relativistico. Secondo questo criterio, ad esempio, un cubo non deve essere rappresentato in prospettiva (e quindi come apparirebbe agli occhi di un osservatore, con solo tre facce) ma con tutti i piani ribaltati a testimonianza della sua vera natura.

È come se il dipinto fosse il riassunto sincronico di un percorso che l’artista ha fatto intorno al soggetto da ritrarre. Dunque, per la prima volta, viene mostrata anche la “quarta dimensione”, il fattore tempo ed inoltre, a detta del critico Mario de Micheli, ai manda definitivamente in frantumi nelle arti figurative la concezione classica dello spazio.

In una incredibile coincidenza temporale, la definizione di tempo come quarta dimensione della realtà, era postulata, negli stessi anni, dalla Teoria della Relatività di Albert Einstein.

Le due opere, il quadro e l’articolo, affrontano il medesimo problema: la natura della simultaneità. E, negli stessi mesi, giungono alla medesima conclusione iconoclasta: la degradazione di una concezione plurimillenaria dello spazio classico quale assoluto e ineffabile contenitore degli eventi cosmici.

Ma è davvero possibile che queste opere si siano influenzate a vicenda? Gli storici dell’arte riconoscono che, nel dipingere Les Damoiselles d’Avignon, nel mandare in frantumi lo spazio classico e nell’avviare una rivoluzione nell’arte figurativa, il genio di Picasso ha interpretato e si è fatto partecipe dello «spirito del tempo». Ivi compreso quello «spirito scientifico» che, a inizio ‘900, stava sottoponendo a seria critica la concezione newtoniana dello spazio e del tempo. Questa affermazione è una vera e propria conquista perché implica l’esistenza di un ponte tra la dimensione artistica e la dimensione scientifica della cultura umana, che molti negano e che ha portato, più tardi, nella seconda parte del XX secolo, sir Charles Percy Snow a parlare, sia pur con rammarico, di un’avvenuta separazione tra «le due culture». E tuttavia nessuno, fino a qualche tempo fa, aveva parlato e osato indagare la singolare coincidenza di tempi e di contenuti tra il quadro del 25enne pittore spagnolo e l’articolo del 26enne fisico tedesco. D’altra parte ciascuno dei due semplicemente ignorava l’esistenza dell’altro, ma semplicemente entrambi si interessavano agli stessi problemi ed entrambi hanno bevuto alla medesima fonte di ispirazione.

Nei primi anni del Novecento Albert Einstein deriva che non esistono eventi simultanei in assoluto nell’universo ma che la simultaneità temporale dipende dal sistema di riferimento. Ciò c’entra con Picasso, il quale, come tutti i (futuri) esponenti del Cubismo all’inizio del XX secolo è impegnato in un vero e proprio «programma di ricerca». Il programma di ricerca di Picasso, come quello di Einstein, riguarda la simultaneità, anche se riferita allo spazio invece che al tempo. E l’ottica di Picasso è la medesima di Einstein: non esistono sistemi di riferimento privilegiati. La simultaneità assoluta non esiste. E ciascuno ha una visione dei fenomeni che avvengono nello spazio che dipende dal punto di osservazione. In definitiva, entrambi, Albert Einstein e Pablo Picasso, tra il 1905 e il 1906, scoprono il concetto di relatività. Il primo conferisce a questo concetto una piena dignità scientifica, attraverso un modello matematico; il secondo gli conferisce una piena dignità artistica, attraverso un nuovo modello geometrico.

Einstein e Picasso hanno tratto ispirazione dal francese Henri Poincaré considerato, a inizio del Novecento, il più grande matematico del mondo. Poincaré ha affrontato il tema della simultaneità sviluppandolo sulla base di un approccio non euclideo (non classico) alla geometrizzazione del mondo fisico, in un libro pubblicato nel 1902: La Science et l’hypothèse. Nel 1904, infine, in una relazione al Congresso internazionale di Arti e Scienza di Saint Louis, ha ripreso il concetto di “tempo locale” di Lorenz e ha proposto un suo “postulato di relatività”. In una sorta di esperimento mentale, proprio del tipo di quelli che ama Einstein, immagina due osservatori che si muovono di moto uniforme e che tentano di sincronizzare i loro orologi mediante segnali luminosi. Quegli orologi non segneranno il tempo vero ma solo un “tempo locale” questo perché tutti i fenomeni sono percepiti, da un osservatore rispetto all’altro, come rallentati. Infine Poincaré giunge a questa conclusione: «Forse dobbiamo edificare una nuova meccanica, che riusciamo a mala pena a intravedere […], in cui la velocità della luce sia invalicabile». È opinione diffusa che Poincaré si fermi proprio un attimo prima di elaborare quella teoria della relatività ristretta che sarà proposta l’anno successivo da Einstein. Come Einstein anche Picasso viene a conoscenza delle teorie del francese prendendo parte alle discussioni nel circolo di giovani «la banda Picasso» di Parigi,  Maurice Princet che per hobby studia l’alta matematica, il quale ha introdotto Picasso ai concetti di spazio non euclideo e di geometria a più dimensioni e ha letto anche Poincaré. Sono questi concetti che guidano Picasso nel progetto di ricerca sulla riduzione delle forme inaugurando una «nuova estetica». E se nei primi mesi del 1906 realizza Harem dal il medesimo soggetto ma una prospettiva completamente diversa, quella classica nell’autunno di quel medesimo anno con Les Damoiselles d’Avignon viene messa in atto la nuova idea di estetica, proponendo il medesimo soggetto – le donne in una casa di piacere – ma con una prospettiva affatto nuova, relativistica. Traendo le doverose conclusioni è possibile asserire che fra scienza e arte, tra tutte le diverse dimensioni della cultura umana, esiste un processo incessante di osmosi che la va crescendo proprio nel periodo in cui lo storico Thomas Kuhn inizia a sostenere che non è possibile separare in modo netto la cultura umanistica da quella scientifica, perché nella storia del pensiero le due culture si sono sempre interpenetrate. Oggi gli esperti di storia del pensiero scientifico non hanno dubbi sull’esistenza di questi stretti rapporti. Gillian Beer, per esempio, ha dimostrato l’influenza che ha avuto in Charles Darwin la lettura delle poesie di John Milton, e l’importanza che hanno avuto i suoi scritti (L’origine delle specie) sull’opera letteraria di George Eliot. Si potrebbe continuare con un numero pressocché infinito di esempi e possiamo dire, con Katherine Hayles, che i rapporti tra scienza e arte si dipanano lungo tre fili: –quello della retorica, con mutuo scambio di registri comunicativi;

-quello dei concetti, con il reciproco scambio di temi, metafore e analogie;

-quello della cultura profonda, con ciò che Eugenio Montale definiva l’oscuro e irrisolvibile pellegrinaggio di idee feconde e di strumenti epistemologici che passano dall’una all’altra e che ordiscono la matrice culturale in cui si muove ciascuno di noi.

Lo storico della fisica e del pensiero scientifico Gerald Holton ha chiamato themata gli oggetti di questo pellegrinaggio oscuro e irrisolvibile e ha sostenuto che lo scambio di questi strumenti epistemologici tra scienza e arte contribuisce a quel complesso e radicale riorientamento metaforico che nella scienza, come nella cultura costituisce un «cambio di paradigma». Talvolta il pellegrinaggio incessante di themata tra scienza e arte è meno oscuro e meno irrisolvibile ma nel caso di Einstein e Picasso questo flusso è emerso finalmente alla luce  grazie agli studi di Arthur I. Miller, e un nuovo themata è entrato nel nostro immaginario. Tutti noi «sentiamo» in qualche modo che non viviamo in uno spazio assoluto, ma in uno spazio relativistico infatti l’uomo del XX secolo ha una concezione dello spazio diversa da quella che hanno avuto gli uomini nelle età precedenti.

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