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Proponiamo alla lettura tre percorsi all’interno della vasta produzìone letteraria di Freud, che si riferiscono rispettivamente all’interpretazione dei
sogni, alla terapia psicoanalitica e alla teoria della sessualità.

I testi analizzati saranno pertanto suddivisi nelle seguenti sezioni:

  1. Il sogno e la sua interpretazione
  2. La situazione analitica
  3. La scoperta della sessualità infantile

 

  1. Il sogno e la sua interpretazione

La teoria del sogno riveste un posto di primo piano nella concezione freudiana. A tale 
argomento Freud dedicò il suo capolavoro, intitolato appunto L’interpretazione dei 
sogni. La data di pubblicazione dell’opera, il 1900, sembra presagire la portata innovativa di un testo che poneva per la prima volta come campo di indagine non la vita cosciente dell’uomo, ma l’inconscio, un territorio oscuro e inesplorato.

L’analisi dei sogni caratterizza non soltanto la teoria, ma anche la pratica (la terapia) psicoanalitica, e la sua importanza emerge anche dal fatto che Freud, nel sottoporsi all’autoanalisi, riconosce come fondamentali i propri sogni e vi presta particolare attenzione.

Alla base della concezione freudiana della vita onirica vi è l’intuizione che l’elaborazione dei sogni possa avvenire in modo analogo a quella di alcuni sintomi psicopatologici, come le fobie, le manie e le idee ossessive. Tutti questi fenomeni presentano, secondo Freud, un’origine comune: gli impulsi rimossi, che tendono ad affiorare alla coscienza del soggetto in forma velata e modificata. Freud, così, intravede nell’interpretazione dei sogni la via per accedere all’inconscio. I sogni sono l’appagamento camuffato di un desiderio rimosso: il loro contenuto manifesto (vale a dire quello che sogniamo e che ricordiamo) richiama (= è il sintomo di) un contenuto latente (i desideri inaccettabili), che è stato sottoposto a censura. In questo senso, osserva Freud, la credenza popolare nell’importanza dei sogni 
è del tutto giustificata.

I brani che seguono sono tratti dal racconto di un sogno di Freud, come egli lo ha trascritto al risveglio.

 

da Sul sogno

«Una compagnia di persone, tavola o table d’hôte[1]Si mangiano spinaci… La signora E.L. siede accanto a me, si volge tutta verso di me e posa confidenzialmente la mano sul mio ginocchio. lo allontano la mano scostandomi. Essa dice quindi: “Lei però ha sempre avuto così begli occhi… “. lo vedo allora confusamente qualche cosa come due occhi disegnati, o come il contorno di una lente d’occhiali… ».

Questo è l’ultimo sogno, o per lo meno tutto ciò che io ne ricordo. Esso mi sembra oscuro e senza senso, ma sopra tutto strano. La signora E.L. è una persona con la quale non ho mai avuto rapporti amichevoli, né ho mai desiderato di avere con lei, ch’io mi sappia, relazioni più cordiali. Non l’ho veduta da molto tempo e non ritengo di averne
udito parlare negli ultimi giorni. Il sogno non è stato accompagnato da alcun elemento emotivo[2].

La semplice considerazione del sogno non mi consente di meglio comprenderlo. Ma ora annoterò spassionatamente, ed astenendomi da ogni critica, le associazioni che si presentano alla mia osservazione interiore. Rilevo intanto che è conveniente spezzare il sogno nei suoi elementi e rintracciare per ogni singolo frammento le idee che vi si annodano.

Compagnia di persone, tavola o table d’hôte. Vi si collega tosto il ricordo dell’episodio che ha concluso la serata di ieri. Mi ero allontanato da una piccola riunione, insieme con un amico che si offrì di prendere una carrozza e di accompagnarmi a casa. «Preferisco una carrozza con tassametro», disse egli, «essa tiene uno occupato così piacevolmente; si 
ha sempre qualche cosa da guardare». Quando fummo seduti in vettura e il cocchiere 
fece funzionare il tassametro così che apparvero i primi sessanta scellini, io proseguii lo 
scherzo: «Siamo appena saliti e già gli dobbiamo sessanta scellini. Il tassametro mi fa 
sempre venire in mente la table d’hôte. Esso mi rende avaro e interessato, in quanto mi 
ricorda costantemente il mio debito; mi sembra che cresca troppo presto, ed io temo di 
perderci, proprio come alla table d’hôte e non posso evitare il comico timore di ricevere 
troppo poco e di dover stare attento al mio interesse».

Con un più lontano riferimento alla situazione, ho citato:

«Voi ci traete avanti nella vita,

Il povero per voi si fa colpevole»[3].

Una seconda associazione per table d’hôte. Qualche settimana fa, mentre ero a tavola in albergo, in un paese di villeggiatura del Tirolo, mi sono fortemente irritato con la mia diletta moglie, la quale non era stata sufficientemente riservata verso alcuni vicini, con i quali non volevo assolutamente stringere relazione. La pregai di occuparsi più di me che non di estranei. Anche ciò è come se io ci avessi rimesso alla table d’hôte. Ora mi si presenta pure il contrasto fra il comportamento di mia moglie a quel tavolo, e quello, nel sogno, della signora E.L., che «si volge tutta verso di me».

E ancora: osservo ora che il sogno è la riproduzione di una scenetta che si è svolta in modo del tutto simile fra me e mia moglie al tempo del mio fidanzamento segreto. Il gesto affettuoso sotto la tavola era la risposta alla lettera in cui le facevo la mia domanda. Nel sogno però mia moglie viene sostituita dalla estranea E.L[4].

La signora E.L. è la figlia di un uomo al quale ho dovuto del denaro. Non posso fare a meno di osservare che vien qui fuori una connessione inaspettata fra gli elementi del sogno e le mie associazioni. Seguendo la catena associativa, che parte da un elemento del contenuto del sogno, si viene tosto ricondotti ad un altro elemento di quel contenuto. Le associazioni promosse dal sogno ristabiliscono connessioni che non sono manifeste nel sogno stesso.

Quando qualcuno si aspetta che altri prenda cura dei suoi interessi, senza trovarvi un suo profitto, non si usa chiedere sarcasticamente a questo inesperto delle cose del 
mondo: «Crede dunque che questo o quest’altro accada per i suoi begli occhi?». Allora il discorso della signora E.L. nel sogno, «Lei ha sempre avuto così begli occhi», significa semplicemente: la gente le ha fatto sempre tutto per favore; lei ha sempre avuto tutto gratuitamente. Naturalmente è vero l’opposto; tutto ciò che di buono ho avuto dagli altri, l’ho sempre pagato caro. Deve perciò avermi fatto impressione che ieri io abbia avuto gratis la carrozza con la quale il mio amico mi ha condotto a casa.

Del resto l’amico di cui siamo stati ospiti ieri sera mi ha reso spesso suo debitore. E giusto poco tempo fa ho lasciato trascorrere un’occasione per sdebitarmi. Egli possiede un unico mio regalo, un vaso antico intorno al quale sono dipinti occhi, un cosiddetto occhiale per scongiurare il malocchio. Del resto egli è oculista. Giusto ieri sera l’ho interrogato su una paziente che gli ho inviato perché le prescrivesse degli occhiali[5].

Come si vede, quasi tutti gli elementi del sogno vengono a trovarsi in una nuova connessione. Potrei chiedermi, procedendo in modo conseguente: perché nel sogno vengono in tavola proprio spinaci? Perché gli spinaci ricordano una breve scena, svoltasi al nostro desco familiare, quando un bambino – proprio quello di cui si possono vantare i begli occhi – si rifiutò di mangiare spinaci. Io stesso da bambino mi ero comportato così. Per molto tempo non potei sopportare gli spinaci, finché più tardi i miei gusti mutarono e questa verdura divenne per me un piatto preferito. L’accenno a questo piatto stabilisce in tal modo un avvicinamento della mia infanzia con quella del mio bambino. «Accontentati degli spinaci, – aveva detto la madre al piccolo dai gusti difficili, – vi sono bambini che sarebbero felici di averne». Vi è qui un rinvio alle cure dei genitori per i loro figli. Le parole di Goethe

«Voi ci traete avanti nella vita,

Il povero per voi si fa colpevole»

mostrano, in questa connessione, un nuovo significato[6].

Sul sogno, in C. Musatti, Freud, Bollati Boringhieri, Torino 1963, pp. 203-206

 

da Sul sogno

Mi fermerò qui, per prendere in esame i dati dell’analisi finora raccolti. Seguendo le associazioni che si annodavano ai singoli elementi del sogno, isolati dal loro contesto, sono giunto ad una serie di pensieri e di ricordi, in cui debbo riconoscere espressioni significative della mia vita interiore. Questo materiale, trovato mediante l’analisi del sogno, sta in una intima relazione col contenuto del sogno; tuttavia la relazione è tale che io non avrei potuto in alcun modo ricavare ciò che di nuovo ho trovato da quel contenuto. Il sogno era privo di elementi emotivi, sconnesso ed incomprensibile; mentre vengo svolgendo i pensieri che stanno dietro al sogno, avverto sentimenti intensi e ben fondati; i pensieri stessi si saldano curiosamente in catene logicamente connesse, nelle quali alcune rappresentazioni figurano ripetutamente come termini centrali. Nel nostro esempio queste rappresentazioni, che non appaiono nel sogno, sono: la contrapposizione interessato-disinteressato e gli elementi essere debitore e agire gratuitamente. Nella trama rivelata dall’analisi potrei ora tirare più fortemente i fili e far vedere che essi convergono in un unico nodo; se non che motivi d’ordine non scientifico, ma di natura privata, mi impediscono di rendere pubblico un lavoro siffatto. Dopo essermi reso via via pienamente conto, nella spiegazione, di quanto io stesso riconosco a malincuore, dovrei ora confessare troppe cose che desidero rimangano un mio segreto. Ma perché non ho preferito scegliere un altro sogno, la cui analisi meglio si prestasse ad essere comunicata, così da poter dare una dimostrazione più persuasiva del significato e della coerenza del materiale tratto dall’analisi? La risposta è semplice: perché ogni sogno che io volessi considerare mi porterebbe egualmente a cose difficili da comunicare e mi condurrebbe alla stessa necessità di discrezione. Né potrei evitare una tale difficoltà prendendo in analisi il sogno di un’altra persona, a meno che la situazione non consentisse di lasciar cadere ogni velo, senza danno per la persona che mi si è affidata[7].

Il concetto che mi son fatto fin d’ora è che il sogno sia una specie di surrogato, di quei pensieri sensati ed a forte rilievo emotivo, a cui sono arrivato da un’analisi completa. Non conosco ancora il processo che fa nascere il sogno da questi pensieri, ma ritengo che sia erroneo concepirlo come un processo organico, privo di un significato psichico, che nascerebbe dall’attività isolata di un gruppo di cellule nervose eccitate nel sonno.

Due cose voglio ancora osservare: che il contenuto del sogno è assai più breve che non i pensieri di cui lo considero un surrogato, e che l’analisi ha scoperto quale provocatore del sogno un banale episodio della sera innanzi[8].

Naturalmente non mi permetterei di enunciare una conclusione così complessa, se disponessi soltanto di un’unica analisi di sogno. Ma poiché l’esperienza mi ha insegnato che, seguendo acriticamente le associazioni, posso con ogni sogno giungere ad una analoga catena di pensieri, in cui vengono ripetuti gli elementi del sogno, e che son fra loro collegati correttamente e sensatamente, si può ben escludere ogni sospetto che la connessione osservata in un caso singolo sia puramente casuale. Mi sento perciò autorizzato a fissare questo nuovo punto di vista con qualche definizione. Contrappongo il sogno, così come mi si presenta al ricordo, al corrispondente materiale trovato mediante l’analisi, e chiamo il primo contenuto manifesto, il secondo, preso per ora nel suo insieme, contenuto latente del sogno. Pongo quindi due problemi, che finora non sono stati formulati: l) Qual è il processo psichico che ha tradotto il contenuto latente in quello manifesto, come mi è noto nel ricordo? 2) Qual è, o quali sono i motivi che rendono necessaria una tale trascrizione? Chiamerò elaborazione onirica il processo di trasformazione del contenuto latente in contenuto manifesto. Il lavoro opposto, quello cioè che compie la trasformazione inversa, potrà dirsi lavoro di analisi. Tutti gli altri problemi del sogno, e cioè quelli relativi ai moventi del sogno, all’origine del materiale onirico, all’eventuale significato e funzione del sogno, alle cause dell’oblio del sogno, non li tratterò più partendo dal contenuto manifesto, ma dal contenuto latente che ora abbiamo scoperto. E poiché reputo che tutte le contraddizioni e gli errori sulla vita del sogno, che son contenuti nella letteratura scientifica, son dovuti alla ignoranza di quel contenuto latente che solo l’analisi consente di scoprire, cercherò d’ora innanzi di evitare con la massima cura ogni scambio del sogno manifesto col pensiero latente del sogno[9].

Sul sogno, in C. Musatti, Freud, cit., pp. 206-208

 

  1. La situazione analitica

I brani che seguono, tratti dal testo di Freud Psicoanalisi (1938), presentano la psicoanalisi come terapia, con tutte le interazioni e i problemi che il rapporto medico-paziente comporta. La premessa da cui Freud parte è che la terapia psicoanalitica deve rendere l’Io del paziente più forte e sicuro di sé; infatti, negli stati psichici patologici ciò che si riscontra è un indebolimento relativo o assoluto dell’Io, oppresso dalla triplice dipendenza nei confronti della realtà, dell’Es e del Super-Io. Scrive Freud: «Abbiamo il presentimento che, nei conflitti economici di qui derivati, l’Es e il Super-Io facciano spesso causa comune contro l’Io oppresso, il quale vuole aggrapparsi alla realtà per conservare la sua norma. Se i primi due sono troppo forti riescono ad allentare e a modificare l’organizzazione dell’Io in modo da turbare la sua giusta relazione con la realtà o addirittura da eliminarla» (Psicoanalisi, trad. it. di A. Durante, Bollati Boringhieri, Torino 1963, p. 259). Leggiamo dunque la presentazione della terapia psicoanalitica proposta da Freud e vediamo che cosa si verifica quando il paziente è sdraiato sul lettino dell’analista.

 

da Psicoanalisi

L’Io è indebolito dal conflitto interno, dobbiamo aiutarlo. È come fosse una guerra civile, che deve essere decisa dall’esterno con l’intervento di un alleato. Il medico analista e l’Io indebolito del malato debbono, appoggiandosi al mondo reale esterno, formare un partito contro i nemici, le pretese istintive dell’Es e le pretese di coscienza del Super-Io. Noi concludiamo un patto reciproco. L’Io malato ci promette la massima sincerità, cioè di poter disporre di tutto il materiale che gli fornisce la sua autopercezione, noi gli assicuriamo la massima discrezione e mettiamo al suo servizio la nostra esperienza nell’interpretazione del materiale influenzato dall’inconscio. Il nostro sapere deve riparare a un’ignoranza, deve restituire al suo Io il dominio sulle perdute province della vita psichica. In questo fatto consiste la situazione analitica[10].

[…] Con i nevrotici dunque stipuliamo il patto: massima sincerità contro rigorosa discrezione. Ciò dà l’impressione che noi tendiamo semplicemente ad assumere la posizione del confessore laico. Ma la differenza è grande, giacché non solo vogliamo sentire che cosa egli sa e nasconde agli altri, bensì egli deve raccontarci anche ciò che non sa. Con questa mira gli definiamo più precisamente quel che intendiamo per sincerità. Lo impegniamo alla regola analitica fondamentale, che in futuro dovrà dominare il suo comportamento nei nostri riguardi. Non solo egli deve comunicarci ciò che intenzionalmente e volentieri dice e che gli dà sollievo come in una confessione, ma anche tutto il resto che gli offre la sua autosservazione, tutto quanto gli viene in mente, anche se per lui è sgradito dirlo; anche se gli sembra poco importante, o addirittura assurdo. Se dietro queste indicazioni gli riesce di neutralizzare l’autocritica, egli ci fornirà in abbondanza materiale, pensieri, idee, ricordi, che sono già sotto l’influenza dell’inconscio, spesso ne derivano direttamente, e dunque ci mettono in grado d’indovinare l’inconscio rimosso in lui e di allargare con le nostre comunicazioni la conoscenza del suo Io sul suo inconscio[11].

Psicoanalisi, trad. it. di A. Durante, Bollati Boringhieri, Torino 1963, pp. 166-167

 

da Psicoanalisi

Avvengono varie altre cose; alcune possiamo prevederle, altre sono per forza delle sorprese. La più singolare è che il paziente non si limita a considerare l’analista, alla luce della realtà, come colui che lo aiuta e lo consiglia, che oltre a ciò viene compensato per le sue fatiche e che volentieri si limiterebbe alla parte – diciamo – di una guida alpina in una difficile gita in montagna, bensì il paziente scorge in lui un ritorno – reincarnazione – di una persona importante della sua infanzia, del suo passato, e perciò trasferisce su di lui sentimenti e reazioni che sicuramente spettavano a questo modello. Il fatto della traslazione si rivela ben presto come un momento di inaspettata importanza, da un lato come mezzo ausiliario d’insostituibile valore, dall’altro come fonte di seri pericoli. Questa traslazione è ambivalente; essa comprende impostazioni positive e affettuose come anche negative e ostili nei riguardi dell’analista, il quale di solito viene messo al posto di uno dei genitori, il padre o la madre. Finché è positiva, la traslazione ci rende i migliori servigi. Essa modifica tutta la situazione analitica, lasciando in disparte l’intento razionale di guarire e liberarsi dalle sofferenze. In suo luogo subentra l’intenzione di piacere all’analista, di guadagnare la sua approvazione, il suo affetto. Essa diventa la vera molla della collaborazione del paziente; 1’Io indebolito diventa forte, sotto l’influenza della traslazione riesce a far cose che altrimenti gli sarebbero impossibili, fa cessare i suoi sintomi, apparentemente diventa sano, ma solo per amore dell’analista. L’analista confesserà con vergogna a se stesso di avere intrapreso un difficile compito senza presentire gli straordinari mezzi di potenza che avrebbe avuto a disposizione[12].

Psicoanalisi, cit., p. 168

 

Laboratorio di analisi del testo

Uno degli aspetti fondamentali della situazione analitica è, per Freud, la traslazione affettiva o transfert, che si instaura tra il paziente e l’analista.

Analizza il brano nel modo indicato:

rispondi alle domande seguenti: (max 3 righe ciascuna)

– che cosa vede il paziente nell’analista, oltre al fatto che rappresenta «colui che lo aiuta»?

– di quali «sentimenti e reazioni» diviene oggetto il medico?

– quando la traslazione è positiva, cioè arreca determinati vantaggi?

– in che senso «l’Io indebolito diventa forte»?

rifletti sul termine “ambivalenza”:

– la traslazione è ambiva lente nel senso che comprende i sentimenti nutriti dal paziente:

(segna la risposta esatta)

  1. sia verso il padre sia verso la madre
  2. sia positivi sia negativi, verso lo stesso oggetto d’amore
  3. positivi, relativi sia al padre sia all’analista

Motiva la risposta.

 

da Psicoanalisi

Il nostro cammino per rafforzare l’Io indebolito parte dall’allargamento della sua conoscenza; come sappiamo, non è tutto, ma è il primo passo. La perdita di tale conoscenza significa per l’Io perdita di potenza e di influsso, è il primo segno percepibile che l’Io è costretto e ostacolato dalle pretese dell’Es e del Super-Io. Perciò la prima parte del nostro aiuto è un lavoro intellettuale da parte nostra e l’invito alla collaborazione rivolto al paziente. Sappiamo che questa prima attività deve aprirsi la strada a un altro più difficile compito. Non perderemo d’occhio il contributo dinamico di esso anche durante la fase introduttiva. Noi ricaviamo il materiale per il nostro lavoro da fonti diverse, da ciò cui ci fanno pensare le comunicazioni e le libere associazioni del paziente, da ciò che egli ci rivela nelle sue traslazioni, da ciò che ricaviamo con l’interpretazione dei suoi sogni, da ciò che egli tradisce nei suoi atti mancati. Tutto questo materiale ci aiuta per ricostruire ciò che gli è avvenuto e che ha dimenticato, come anche ciò che oggi avviene in lui senza che egli lo capisca[13].

Noi però non dimentichiamo mai di tenere rigorosamente distinti il nostro sapere e il suo sapere. Evitiamo di comunicargli subito ciò che abbiamo soventissimo indovinato fin dall’inizio, oppure di comunicargli tutto quello che crediamo di avere indovinato. Scegliamo con cura il momento per metterlo a parte di una delle nostre costruzioni, e non sempre è facile decidere quale sia il momento più appropriato. Di regola rimandiamo la comunicazione di una costruzione, la spiegazione, fino al momento in cui egli vi si è talmente avvicinato che gli manca soltanto di fare un passo, che certamente è il passo decisivo della sintesi. Se procedessimo diversamente, se lo sovraccaricassimo delle nostre interpretazioni prima di averlo preparato ad esse, la comunicazione o rimarrebbe senza risultato o provocherebbe un violento scoppio di resistenza, che potrebbe ostacolare la continuazione del lavoro o addirittura metterla in pericolo. Ma se abbiamo preparato tutto in modo giusto, otteniamo spesso che il paziente confermi immediatamente la nostra costruzione e ricordi da sé il processo interno o esterno dimenticato. Quanto meglio la costruzione coincide con i particolari di ciò che è stato dimenticato, tanto più facilmente avremo l’assenso del malato. Il nostro sapere su questo punto, allora, è diventato anche suo sapere[14].

Ricordando la resistenza siamo giunti alla seconda, più importante, parte del nostro lavoro. Abbiamo già visto che l’Io si difende contro l’invasione di elementi indesiderati – provenienti dall’Es inconscio e rimosso – mediante controcariche la cui integrità è condizione della sua funzione normale. Quanto più ora l’Io si sente oppresso, tanto più convulsamente si ostina, per così dire angosciato, a mantenere queste controcariche per proteggere le zone rimanenti da altre irruzioni. Noi vogliamo al contrario che l’Io, diventato ardito per la sicurezza del nostro aiuto, osi l’assalto per riconquistare ciò che ha perduto. Qui ci è dato sentire l’intensità di queste contro cariche come resistenze contro il nostro lavoro. L’Io paventa le imprese che paiono pericolose e sono una minaccia di dispiacere, bisogna rincuorarlo continuamente e tranquillizzarlo perché non ci si neghi. Questa resistenza, che dura per tutto il trattamento e si rinnova in ogni fase del lavoro, la chiamiamo non del tutto correttamente resistenza di rimozione. Vedremo che non è la sola ad attenderci[15].

Psicoanalisi, cit., pp. 171-172

 

da Psicoanalisi

Esaminiamo ancora una volta la situazione in cui ci siamo messi col nostro tentativo di portare aiuto all’Io nevrotico. Questo lo non può più adempiere al compito che gli è posto dal mondo esterno, compresa la società umana. Esso non dispone di tutte le sue esperienze, una gran parte del suo patrimonio mnestico[16] gli è sfuggita. La sua attività è ostacolata dai rigorosi divieti del Super-Io, la sua energia si logora in vani tentativi di resistere alle pretese dell’Es. Oltre a ciò, in conseguenza delle continue irruzioni dell’Es nella sua organizzazione, 1’Io è danneggiato, scisso in se stesso, non riesce più a compiere una qualsiasi normale sintesi, è dilaniato da aspirazioni contrastanti, conflitti irrisolti, dubbi non chiariti[17]. In un primo momento facciamo partecipare questo Io indebolito del paziente al lavoro puramente intellettuale di interpretazione, il quale tende a colmare provvisoriamente le lacune del suo dominio psichico, lasciamo che l’autorità del suo Super-Io venga trasferita su di noi, lo incitiamo a dar battaglia per ogni singola pretesa dell’Es e a vincere le resistenze che ne derivano. Contemporaneamente facciamo ordine nel suo Io, ricercando i contenuti e le aspirazioni che vi sono penetrati dall’inconscio e dandoli in preda alla critica col ricondurli alla loro origine. Noi serviamo al paziente in varie funzioni come autorità e surrogato dei genitori, come maestro e educatore; abbiamo fatto tutto il meglio per lui se, come analisti, eleviamo nel suo Io i processi psichici al livello normale, se trasformiamo ciò che è diventato inconscio e ciò che è stato rimosso in preconscio, e così lo restituiamo all’Io[18]. Dalla parte del paziente agiscono per noi alcuni momenti razionali, come il bisogno, motivato dalla sofferenza, di guarire, e l’interesse intellettuale che siamo riusciti a risvegliare in lui per le teorie e le scoperte della psicoanalisi; con forze molto più intense agisce però la traslazione positiva con cui egli ci viene incontro. Dall’altra parte lottano contro di noi la traslazione negativa, la resistenza di rimozione dell’Io, cioè il suo dispiacere di esporsi al difficile lavoro che gli è imposto, il senso di colpa derivante dal rapporto con il Super-Io, e il bisogno di malattia dovuto a profonde modificazioni dell’economia dei suoi istinti. Dalla parte che vi hanno gli ultimi due fattori dipende se chiameremo il suo caso facile oppure invece difficile. Indipendentemente da questi si possono riconoscere alcuni altri momenti che sono considerati favorevoli o sfavorevoli. Una certa pigrizia psichica, una scarsa mobilità della libido, che non vuole abbandonare le sue fissazioni, non possono certo essere salutate come un aiuto; la capacità della persona alla sublimazione degli istinti ha una grande parte, insieme alla sua capacità di elevarsi sulla grossolana vita istintiva, come anche ha una parte la forza relativa delle sue funzioni intellettuali[19].

Psicoanalisi, cit., pp. 174-176

 

  1. La scoperta della sessualità infantile

Questo percorso prende in esame un altro tema rilevante della psicoanalisi, la sessualità infantile, che riveste un ruolo fondamentale nella teoria freudiana essendo all’origine di molte patologie nevrotiche. Queste si instaurano infatti principalmente nell’età infantile (anche se i sintomi possono manifestarsi molti anni dopo) e sono determinate da un conflitto tra i desideri inconsci (di carattere sessuale) e le istanze del Super-Io, che 
provocano una reazione difensiva da parte dell’Io.

 

da Psicoanalisi

Le esperienze analitiche insegnano che esiste effettivamente una pretesa dell’istinto 
che è molto poco o solo imperfettamente dominabile, e un’epoca della vita che dev’essere presa in considerazione, esclusivamente o prevalentemente, per la nascita di una nevrosi. 
I due momenti – natura dell’istinto ed epoca della vita – richiedono di essere considerati separatamente, sebbene molti siano i loro rapporti reciproci.

Sulla parte che ha l’epoca della vita possiamo pronunciarci con sufficiente sicurezza. Sembra che le nevrosi siano acquisite soltanto nella prima infanzia (fino al sesto anno di età), anche se i loro sintomi possono comparire molto più tardi. La nevrosi infantile può divenire manifesta per un breve periodo oppure addirittura non essere notata. La successiva malattia nevrotica si riallaccia in tutti i casi a questo preludio infantile. Forse fa qui eccezione la cosiddetta nevrosi traumatica (dovuta a uno spavento eccessivo, a gravi 
turbamenti somatici, come uno scontro ferroviario, il rimanere seppelliti sotto le macerie e così via); le sue relazioni con la condizione infantile si sono finora sottratte alla ricerca. La predilezione eziologica[20] del primo periodo dell’infanzia è facilmente motivabile. Le nevrosi, come sappiamo, sono affezioni dell’Io, e non c’è da meravigliarsi che l’Io, finché è 
debole, incompiuto e incapace di resistenza, non riesca a dominare compiti che più tardi potrebbe assolvere come in un gioco. (Le pretese degli istinti dall’interno, così come le 
eccitazioni dal mondo esterno, operano come “traumi”, particolarmente quando incontrano certe disposizioni). L’Io inerme si difende da esse con tentativi di fuga (rimozione),
i quali più tardi risultano inadeguati e significano una durevole limitazione per lo sviluppo interiore[21].

I danni che l’Io subisce dalle sue prime esperienze ci sembrano sproporzionatamente grandi, ma basta pensare per analogia alla differenza dell’effetto che si ha quando, come 
negli esperimenti di Roux, si infligge una puntura di spillo – invece che all’animale già 
perfezionato che ne deriverà – al mucchio di cellule in via di schizogenesi[22]. A nessun individuo umano sono risparmiate queste esperienze traumatiche, nessuno è esonerato dalle rimozioni che esse sollecitano. Queste pericolose reazioni dell’Io sono forse indispensabili per raggiungere un altro fine posto alla stessa epoca della vita. Il piccolo primitivo 
deve in pochi anni diventare un essere umano civilizzato, deve attraversare un enorme 
tratto dello sviluppo civile umano in un periodo quasi mostruosamente abbreviato. Ciò è reso possibile dalla disposizione ereditaria, ma non può quasi mai fare a meno dell’aiuto successivo dell’educazione, dell’influenza dei genitori, che, come precorrendo il Super-Io, limita l’attività dell’Io mediante divieti e punizioni e favorisce o impone il ricorso a rimozioni. Così non si deve dimenticare di accogliere tra le condizioni della nevrosi anche l’influenza della civiltà. Per il barbaro, riconosciamolo, è facile essere sani, per l’uomo civile 
questo è un difficile compito. Noi possiamo trovare comprensibile il desiderio di un lo forte, non inibito; l’epoca presente, come abbiamo imparato, è nemica della civiltà nel senso 
più profondo. E poiché le esigenze della civiltà vengono rappresentate dall’educazione nella famiglia, nell’eziologia della nevrosi dobbiamo ricordarci anche di questo carattere 
biologico della specie umana, del prolungato periodo di dipendenza infantile[23].

Psicoanalisi, cit., pp. 178-180

 

da Psicoanalisi

Il primo oggetto erotico del bambino è il petto della madre che lo nutre; l’amore nasce favorito dal bisogno, soddisfatto, di cibo. Il petto all’inizio non è certo distinto dal proprio corpo; 
quando deve essere separato dal corpo, trasferito verso l”’esterno”, poiché il bambino lo desidera così spesso, esso, in quanto “oggetto”, si porta via una parte della carica libidica originariamente narcisistica. Questo primo oggetto si compie poi nella persona della madre, la quale 
non solo dà il nutrimento, ma accudisce al bambino e in tal modo provoca in lui molte altre sensazioni piacevoli e spiacevoli. Nella cura del corpo la madre diventa la prima seduttrice del bambino. In queste due relazioni si radica l’importanza unica, incomparabile e immutabile per il resto della vita, della madre, in quanto il primo e il più forte oggetto d’amore, in quanto modello di tutte le seguenti relazioni amorose – in ambedue i sessi. Qui la motivazione filogenetica prende talmente il sopravvento sull’esperienza accidentale personale, che non fa alcuna differenza che il bambino abbia realmente succhiato al petto oppure sia stato nutrito con la bottiglia e non abbia potuto godere la tenerezza delle cure materne. Il suo sviluppo percorre 
nei due casi le stesse vie, forse nel secondo il desiderio sarà in seguito tanto più intenso. E per quanto lungo sia il tempo in cui il bambino è stato nutrito al petto della madre, egli anche dopo lo svezzamento sarà sempre persuaso che è stato troppo breve e troppo poco[24].

Questa introduzione non è superflua, essa può rendere più penetrante la nostra comprensione per l’intensità del complesso edipico. Quando il bambino (dai due ai tre anni) è entrato nella fase fallica del suo sviluppo libidico, prova sensazioni piacevoli provenienti dal suo organo sessuale e ha imparato a procurarsele a suo piacimento con l’eccitamento manuale. Egli diviene l’amante della madre, desidera di possederla fisicamente nelle forme che ha indovinato con le sue osservazioni e intuizioni della vita sessuale, cerca di sedurla mostrandole il suo membro virile, il cui possesso lo rende orgoglioso. In una parola: la sua virilità precocemente ride stata cerca di sostituire presso la madre il padre, che era già stato il suo 
modello invidiato, a causa della forza fisica che egli sente in lui, e dell’autorità di cui lo trova 
rivestito. Adesso il padre è il rivale che gli sbarra la strada e che egli vorrebbe eliminare. 
Se durante un’assenza del padre egli ha potuto dividere il letto della madre e al ritorno ne è 
stato bandito, l’appagamento quando il padre non c’è e la delusione quando ritorna significano per il bambino esperienze che giungono fin nel profondo. Questo è il contenuto del complesso edipico, che la leggenda greca ha tradotto dal mondo fantastico del bambino in 
una realtà immaginaria. Nei rapporti civili esso ha di regola una fine spaventosa[25].

La madre ha capito benissimo che l’eccitazione sessuale del bambino riguarda la sua persona, una volta o l’altra le viene in mente che non sia bene non intervenire contro di essa. Crede di far bene a impedire al bambino di occuparsi manualmente del suo membro. Il divieto ha poca utilità, provoca tutt’al più una modifica del modo di autoappagamento. Alla fine la madre ricorre ai mezzi aspri, minaccia il bambino di togliergli la cosa con cui egli la sfida. Di solito attribuisce l’esecuzione della minaccia al padre, per renderla più spaventosa e terribile. Lei lo dirà al padre e questi taglierà il membro. È notevole che questa minaccia abbia efficacia soltanto se prima e dopo è stata adempita un’altra condizione. In sé, al bambino sembra impossibile che qualcosa del genere possa accadere. Ma se, a questa minaccia, può ricordarsi di aver visto un genitale femminile, oppure lo vede poco dopo, un genitale dunque cui manca la parte più apprezzata, allora crede alla serietà di ciò che ha udito, e, cadendo sotto l’influenza del complesso di
castrazione, subisce il trauma più forte della sua giovane vita[26].

Psicoanalisi, cit., pp. 183-184

 

Laboratorio di analisi del testo

Secondo Freud una delle fasi fondamentali dello sviluppo psicosessuale del bambino è quella 
fallica, in cui nasce il complesso di Edipo.

Analizza il testo nel modo indicato:

primo capoverso

– spiega la seguente affermazione: «[La madre è] il primo e il più forte oggetto d’amore, in quanto modello 
di tutte le seguenti relazioni amorose – in ambedue i sessi» (max 10 righe)

secondo capoverso

– riassumi i caratteri del complesso edipico sulla base delle seguenti domande: (max 10 righe)

  1. che cosa accade al bambino quando entra nella fase fallica?
  2. come cerca di sedurre la madre?
  3. quali sentimenti prova verso il padre?

terzo capoverso

– ricostruisci l’insorgere del complesso di castrazione sulla base delle seguenti domande:

(max 10 righe)

  1. che cosa vieta la madre al bambino nel momento in cui avverte che questi prova attrazione per lei?
  2. quali sono le minacce che conseguono agli scarsi esiti del divieto?
  3. nell’immaginario del bambino, da chi dovrebbe essere eseguita la punizione?
  4. quando il bambino inizia a credere nella veridicità della minaccia?

 

da Psicoanalisi

Gli effetti del complesso di castrazione sono più uniformi presso la bambina, ma 
non meno profondi. La bambina naturalmente non ha da temere di perdere il pene, ma deve reagire al fatto di non averlo avuto. Fin da principio, essa invidia il bambino perché lo ha; si può dire che tutto il suo sviluppo si compia nel segno dell’invidia del pene. Da principio essa fa inutili tentativi per essere come il ragazzo, e in seguito con migliori risultati si sforza di compensare il proprio difetto, giungendo finalmente a una normale impostazione femminile. Se nella fase fallica cerca di procurarsi piacere con l’eccitamento manuale del genitale, raggiunge spesso un’insufficiente soddisfazione ed estende il giudizio d’inferiorità dal suo pene atrofizzato a tutta la persona. 
Di regola abbandona ben presto la masturbazione, perché non vuole che le venga ricordata la superiorità del fratello o dei compagni di gioco, e in genere si allontana 
dalla sessualità[27].

Se la piccola donna persiste nel suo primo desiderio di diventare un “ragazzo”, in 
caso estremo finirà per diventare una manifesta omosessuale, altrimenti esprimerà nella sua futura condotta di vita tratti squisitamente virili, sceglierà una professione 
maschile e così via. L’altra via passa per il distacco dalla madre amata, alla quale la 
figlia sotto l’influenza dell’invidia del pene non può perdonare di averla messa al mondo così scarsamente dotata. Piena di rancore per ciò, essa abbandona la madre e la sostituisce come oggetto d’amore con un’altra persona, il padre. Se si è perduto un oggetto d’amore, la reazione più naturale è di identificarsi con esso, per così dire di sostituirlo con l’identificazione dall’interno. Questo meccanismo viene a soccorrere la bambina. L’identificazione con la madre può ora sciogliere il legame con la
madre. La figlioletta si mette al posto della madre, come sempre ha fatto nei suoi giochi, vuole sostituirla presso il padre e ora ha due motivi per odiare la madre, prima amata: per gelosia e perché le è stato negato il pene. Il suo nuovo rapporto con il padre può, in un primo momento, avere per contenuto il desiderio di disporre del suo pene, ma culmina nell’altro desiderio di avere da lui in dono un bambino. Il desiderio del bambino è così subentrato al posto del desiderio del pene oppure se ne è almeno distaccato[28].

È interessante il fatto che il rapporto tra complesso edipico e complesso di castrazione abbia nella donna aspetti del tutto diversi, anzi propriamente opposti 
a quelli dell’uomo. In quest’ultimo, come abbiamo visto, la minaccia della castrazione pone fine al complesso edipico; ma la donna viene a sapere che reagendo all’effetto della mancanza del pene, essa viene sospinta nel complesso edipico. Alla donna arreca pochi danni se essa persiste nella sua impostazione femminile edipica (si è proposto per essa il nome di “complesso di Elettra”[29]). Essa allora sceglierà il 
marito secondo le qualità paterne e sarà pronta a riconoscerne l’autorità. La sua 
brama, propriamente insaziabile, di possesso di un pene può essere appagata, se le 
riesce di completare l’amore per l’organo in amore per chi lo ha, come è a suo tempo accaduto nel progresso dal petto della madre alla persona della madre[30].

Psicoanalisi, cit., pp. 187-189

 

 

Lo specchio invertito: una critica femminista 
della psicoanalisi

Il brano proposto è di una notissima psicoanalista e pensatrice francese, Luce Irigaray (1939), la quale, 
nella sua opera più importante del 1974, Speculum. L’altra donna, ci offre quello che possiamo considerare uno dei testi chiave del femminismo europeo. In esso l’autrice valuta come un fattore positivo la «differenza sessuale» tra uomo e donna e attacca la tradizione freudiana (e tutta la filosofia da Platone a Hegel) in quanto incapace di capire il «continente nero» della femminilità. Filosofia e psicoanalisi 
non sono altro, per lei, che la trascrizione teorica del «potere fallocentrico del maschio», che considera 
la donna come «specchio invertito» dell’uomo, cioè la concepisce solo “in negativo” rispetto all’uomo, per 
ciò che “non ha” e non, invece, per le sue specifiche e autonome caratteristiche, diverse da quelle del 
maschio.

 

Sulla questione che ci interessa potremmo porre alcune domande a loro[31]:

  1. Se la bambina, la donna, ha veramente «invidia del pene» nel senso che Freud dà a tale espressione. Cioè che «vorrebbe avere qualcosa di simile». Questo presupposto infatti sottende tutto quanto s’è detto e si dirà della «sessualità femminile», poiché quell’«invidia» programma l’intera economia pulsionale della donna, perfino «a sua insaputa» prima della scoperta della sua castrazione, non essendo lei mai stata, non essendosi mai voluta altro che un maschio.
  2. Che rapporto esiste tra l’«invidia» e il «desiderio» dell’uomo. In altre parole, la fobia dell’uomo, di Freud in particolare, per la stranezza inquietante del niente da vedere, potrebbe tollerare
che lei, la donna, non ce l’abbia questa «invidia»? Che lei abbia altri desideri, eterogenei rispetto la rappresentazione che lui si fa della sessualità, rispetto le sue rappresentazioni del desiderio sessuale, anzi le sue autorappresentazioni proiettate, riflesse… ? Se la donna avesse altri desideri che non siano «l’invidia del pene», lo specchio[32] che deve rinviare all’uomo la sua immagine – seppure 
invertita – perderebbe forse la sua unità, unicità, semplicità. Piattezza. Non si potrebbe più pianificare la specularità, e speculazione, di ciò che mette in giuoco il suo desiderio – il desiderio. Non soltanto: l’«invidia del pene», quale viene attribuita 
alla donna, supplisce all’angoscia dell’uomo, di Freud, riguardo la coerenza della sua costruzione narcisistica; lo rassicura contro ciò che chiama la paura della castrazione. Se il suo desiderio, infatti, può esprimersi soltanto come «invidia del pene», allora è sicuro di avercelo. E che quello che ha rappresenta l’unico possibile bene nel commercio sessuale.
  3. Perché a Freud viene d’usare il termine «invidia»? Che cosa sceglie Freud? Invidia, gelosia, voglia, correlate ad una mancanza, ad un difetto, assenza di… Tutti termini che descrivono la sessualità femminile come inverso, come rovescio d’un sessualismo maschile. Che la bambina, la donna, privilegi il pene come strumento del suo piacere 
sessuale, […]si potrebbe concedere… Ma l’«invidia del pene», in senso freudiano ed in generale in senso psicoanalitico, non significa altro che il disprezzo della bambina, o della donna, per il proprio piacere onde assicurare un rimedio – indubbiamente ambiguo – all’angoscia di castrazione 
dell’uomo. L’eventualità di perdere il pene, di vederselo togliere, troverebbe un fondamento reale nel fatto, biologico, della castratura della donna. Nell’amputazione anatomica della donna, nel dispetto che proverebbe per la mancanza di sesso, nella 
corrispondente «invidia» e voglia di appropriarsene, si ripresenta la paura di non avercelo o di non averlo più. La rappresentazione del sesso femminile conferma dunque il non avere o non avere più, tipici dell’angoscia di castrazione, mentre la voglia di avere confermerebbe l’uomo nel fatto che lui ce 
l’ha, sicuramente e per sempre, con in più l’avvertimento – clausola necessaria alla perpetuazione del 
gioco – che lei potrebbe prenderglielo.
  4. Irigaray, Speculum. L’altra donna, 
trad. it. di L. Muraro, Feltrinelli, Milano 1976, pp. 44-45

 

A te la parola

  1. Sulla base di quanto hai appreso della dottrina freudiana, ti sembra che il giudizio di Luce Irigaray sulla psicoanalisi possa essere condiviso?
  2. La differenza sessuale è un fattore di arricchimento. Non sempre, però, la società (e l’educazione) lo riconosce. A tuo avviso, a che punto siamo oggi in tema di riconoscimento della specificità femminile e del suo valore?

[1] Ristorante dove si propone un menù a prezzo fisso.

[2] Il brano inizia con l’esposizione del contenuto manifesto del sogno, il quale, come ammette Freud, appare «oscuro e senza senso», oltre che «strano». La signora che nel sogno compare in atteggiamento confidenziale con il protagonista, infatti, non è una persona con cui egli intrattiene abituali 
rapporti di amicizia né, tantomeno, con cui ha avuto una relazione. Lui stesso ammette di non aver 
mai nutrito desiderio nei suoi confronti. Come mai, allora, la situazione lascerebbe intendere il contrario, alludendo a una certa intimità tra i due protagonisti? Che cosa significano gli occhi/occhiali che compaiono alla fine? Si tratta di interrogativi che possono trovare una risposta soltanto grazie all’analisi, che è in effetti l’oggetto principale del testo: Freud intende mostrare concretamente come si 
procede nell’interpretazione di un sogno, a partire dal racconto di ciò che se ne ricorda al risveglio. La notazione finale relativa al fatto che il sogno non è stato accompagnato da nessun «elemento emotivo» è significativa perché, in termini psicoanalitici, potrebbe indicare una forte resistenza del 
soggetto di fronte all’emergere di contenuti “pericolosi” per il suo equilibrio psichico: egli, in qualche modo, “sterilizza” le immagini, spogliandole di ogni implicazione affettiva e di possibili allusioni a 
eventuali desideri inconfessabili.

[3] I versi di Goethe sono: «Ihr führt ins Lebn uns hinein, Ihr lasst den Armen schuldig werden». “Schuldig” significa in questi versi “colpevole”, ma ha anche il significato di “debitore”: di qui nasce il senso del gioco di parole.

La conoscenza del contenuto manifesto del sogno non implica la sua comprensione, per 
conseguire la quale occorre procedere all’interpretazione. Quest’Ultima comporta l’applicazione
del metodo delle «libere associazioni»; esso consiste nel considerare isolatamente tutti gli elementi del racconto onirico, annotando o riferendo all’analista ogni pensiero, immagine, sentimento che, spontaneamente e senza l’intervento di lunghe riflessioni, vi si connette. La prima serie di associazioni collega la «compagnia di persone» e la table d’hôte a un episodio della serata precedente, quando Freud, dopo una riunione, torna a casa in carrozza con un amico, che si è offerto di 
pagare il trasferimento. Dunque la table d’hôte trova una connessione con il tassametro e con il fatto che Freud è in debito e si sente in colpa per questo, come indica anche il riferimento al verso di Goethe in cui compare la parola Schuldig, che significa “colpevole” e insieme “debitore”.

[4] Freud accosta ancora l’espressione table d’hôte a un episodio in cui, a tavola in un albergo, si era irritato con la moglie, accusandola di occuparsi più degli estranei che di lui. Tale atteggiamento risulta in contrasto con quello della donna del sogno, che invece si volge tutta verso il 
protagonista. Emergono dunque altri elementi emotivi, oltre al senso di colpa già evidenziato: il risentimento, la sensazione che in qualche circostanza sia possibile rimetterci denaro e favori, il desiderio di maggiori attenzioni da parte della moglie, che non compie più i gesti attribuiti invece alla donna del sogno.

[5] Di nuovo in questo passo appare un legame con la condizione del debitore, il quale si sente in colpa per la sua inadempienza: la donna del sogno è infatti figlia di un uomo a cui Freud, in passato, ha dovuto del denaro. Freud sottolinea a questo punto come, partendo da un elemento del sogno (la
table d’hôte). si sia arrivati al medesimo contenuto associativo ottenuto partendo da un altro elemento, la figlia del creditore, mostrando una relazione che non è evidente a prima vista. In riferimento agli «occhi», inoltre – che collegano la frase della donna all’amico del ricordo recente, il quale è oculista e ha ricevuto in risarcimento da Freud un «unico» vaso con degli occhi dipinti -, 
il senso di colpa si precisa come disagio per il fatto di aver avuto tutto sempre gratuitamente, senza “pagare” (cioè, forse, senza punizione), fatto che peraltro non corrisponde alla realtà.

[6] Rimane ancora un elemento su cui Freud si interroga prima di avanzare ipotesi interpretative, cioè gli 
spinaci; l’autore associa questo dato a un ricordo infantile, in cui un bambino rifiutava tale alimento, come peraltro faceva lui stesso, venendo rimproverato dalla madre attraverso il riferimento alle persone che non hanno cibo. In questo senso Freud interpreta anche i versi di Goethe che gli sono venuti in mente, in cui si 
cita il «povero», il quale non mangia e non ha soldi e quindi potrebbe rappresentare il protagonista stesso e la sua colpevolezza, legata all’incapacità di saldare i debiti.

[7] Ciò che emerge dalla prima analisi del sogno è la connessione degli elementi che lo compongono con «una serie di pensieri e di ricordi» significativi della vita di Freud, ma soprattutto con emozioni e sentimenti che, in un primo tempo, non erano affiorati (come dice Freud, infatti, il sogno appariva privo di 
«elementi emotivi»). In particolare, vengono alla luce la contrapposizione tra «interessato» e «disinteressato», il ruolo di «debitore» e l’idea dell’«agire gratuitamente», cioè senza pagare. A questo punto, però, Freud si arresta nella spiegazione del significato del sogno, affermando che quello che ha potuto comprendere attraverso il metodo delle libere associazioni riguarda una sfera privata che non ha intenzione di rivelare. L’importante, infatti, non è esporre gli esiti dell’autoanalisi, ma mostrare il metodo seguito e, in qualche modo, rendere conto della sua “scientificità” e validità.

[8] Le prime conclusioni che lo studioso trae dall’analisi del sogno sono le seguenti: il sogno è un «surrogato» dell’insieme di pensieri articolati e complessi a cui si può arrivare dopo l’interpretazione; esso, cioè, è la rappresentazione sintetica, trasformata e mascherata di un insieme di elementi che il soggetto non può esprimere direttamente, e risulta pertanto più esiguo quantitativamente e generalmente “neutro” dal punto di vista emotivo. 
Freud è convinto che il processo di elaborazione del sogno non sia meramente organico, come alcuni psicologi di orientamento positivistico vogliono far credere, ma che abbia un significato prevalentemente psichico. Inoltre, Freud sottolinea la funzione del ricordo recente come stimolo alla formazione della scena onirica: esso funge in 
qualche modo da pretesto, da innesco per la catena associativa inconscia da cui nascono le immagini notturne.

[9] Freud precisa che le conclusioni a cui è giunto applicando il metodo delle libere associazioni non sono legate a una singola esperienza, ma a lunghe indagini cliniche e allo studio di numerosi casi, i quali hanno confermato che i meccanismi associativi sono costanti e presentano caratteristiche comuni. Egli si sente dunque di poter definire con più precisione gli elementi che ha scoperto in relazione alla produzione onirica. Innanzitutto distingue un 
contenuto manifesto, ossia il ricordo del sogno così come viene raccontato, e un contenuto latente, cioè l’insieme dei fattori che emergono soltanto grazie all’analisi; quindi definisce «elaborazione onirica» il processo psichico che 
ha portato alla traduzione del contenuto latente in contenuto manifesto, e, viceversa, «lavoro di analisi» il procedimento attraverso cui, partendo dal contenuto manifesto, si può arrivare a scoprire il contenuto latente e a comprenderne i meccanismi di formazione. Secondo Freud a partire da quest’ultimo è possibile dare una risposta ai problemi relativi al significato e alla funzione del sogno (che è espressione di desideri rimossi), ai motivi del suo oblio (dovuto alla rimozione e alle resistenze dell’Io), all’origine dei materiali che si trovano in esso (che si riferiscono in vari modi alla dimensione pulsionale). In questo senso il sogno è una via d’accesso all’inconscio, perché attraverso la sua analisi è possibile gettare uno sguardo su questa dimensione e sulle strategie messe in atto dall’Es per eludere 
il controllo della coscienza e far valere le proprie istanze. Secondo il padre della psicoanalisi tutti gli errori compiuti nella valutazione dei sogni sono dovuti al fatto che ci si è sempre limitati a indagare il loro contenuto manifesto, trascurando il contenuto latente in cui invece risiedono il significato e la spiegazione della loro elaborazione.

[10] L’Io è inconsapevolmente teatro di una vera guerra psichica tra forze contrastanti: l’Es, il luogo delle pulsioni istintuali, e il super-io o coscienza morale, che impone di reprimere tali istinti. In questa lotta l’Io rischia di soccombere e perciò deve cercare un appoggio esterno: quello dell’analista. Tra i due si stabilisce un patto: il paziente promette di raccontare al medico tutto quello che gli viene in mente, con la massima sincerità (è questo il presupposto fondamentale del metodo delle libere associazioni); il medico assicura la sua totale discrezione. L’obiettivo è di far recuperare all’Io il controllo di quella parte della vita psichica che è stata assoggettata alle pretese dell’Es.

[11] Il patto psicoanalitico prevede che l’ammalato dica al medico tutto quanto affiora alla mente, 
senza selezionare ciò che vuole dire intenzionalmente o volentieri, ma esprimendo anche tutto il resto, per quanto possa essere sgradito o considerato poco importante. L’influenza dell’inconscio, infatti, si lascia avvertire maggiormente proprio là dove i freni della coscienza si allentano, dove l’intenzionalità è 
più debole e il controllo minore, quindi su quegli aspetti a cui magari non prestiamo eccessiva attenzione, ma che risultano fondamentali ai fini dell’analisi.

[12] Il rapporto tra analista e paziente è complesso. Il paziente, infatti, non vede nel terapeuta solo un aiuto e una guida, ma lo percepisce come se fosse una persona importante della sua infanzia, cioè come una figura genitoriale. Freud definisce transfert o traslazione affettiva questo meccanismo per cui l’Io debole del paziente trova nel medico un sostituto della figura infantile di riferimento, nonché il nuovo modello a cui si ispira, un modello di grandissimo valore. Freud precisa subito che la traslazione è ambivalente: essa riveste una funzione positiva finché il paziente nutre fiducia e affetto verso il suo 
analista, ma può acquisire anche un risvolto negativo, quando si carica di sentimenti ostili, gli stessi 
provati, nell’infanzia, nei confronti dei genitori.

[13] Il primo obiettivo dell’analisi è l’«allargamento» della conoscenza del paziente, che deve essere poco per volta condotto a prendere atto dei contenuti e processi rimossi dalla sua coscienza. Infatti, tanto maggiore è la quantità ed “energia” di tali materiali, tanto più forte diventa il potere delle due istanze psichiche contrapposte all’Io: il super lo e l’Es. Il primo costituisce la coscienza morale, che si oppone all’espressione e realizzazione degli istinti pulsionali considerati inaccettabili; la seconda rappresenta l’insieme di tali pulsioni, che, anche se rimosse e confinate nell’inconscio, continuano a essere attive e “operative”, manifestandosi nella vita cosciente del soggetto attraverso varie strategie, tra cui la formazione di sintomi nevrotici. Il primo sforzo
richiesto al paziente sarà pertanto di tipo intellettuale, in quanto egli dovrà raccontare con la massima precisione e dovizia di particolari la propria storia, i sentimenti che prova nei confronti delle varie persone che compongono il suo ambiente familiare ecc., citando anche ciò che gli sembra meno significativo, come pensieri e stati d’animo emersi in determinate circostanze, di cui sfugge il significato, o episodi apparentemente marginali, tornati alla memoria per qualche associazione mentale. Indirettamente, grazie all’interpretazione,
questi elementi riportati nel racconto consapevole guidano l’analista verso il territorio nascosto dell’inconscio.
Il secondo compito dell’analista, dopo aver ascoltato la testimonianza diretta del paziente, sarà quello di stimolare con opportune domande il processo delle libere associazioni, in relazione ai sogni raccontati, agli eventuali atti mancati o lapsus ecc. Si tratta di elementi che, “decodificati”, possono offrire indicazioni preziose 
sui processi inconsci che ne sono all’origine. L’analista, inoltre, dovrà interpretare l’atteggiamento del paziente 
nei suoi confronti («ciò che egli ci rivela nelle sue traslazioni»), che costituisce un indice significativo del 
rapporto che questi aveva instaurato con i genitori. L’analista, infatti, diventando un “appoggio” per il malato, si riveste ai suoi occhi la medesima funzione di una delle due figure di riferimento dell’infanzia, attirando su di sé i medesimi investimenti sentimentali, positivi e negativi, che erano loro abitualmente destinati.

[14] Una prescrizione molto importante per gli analisti è quella di non rivelare tempestivamente le proprie interpretazioni, ma di aspettare il momento opportuno, che potrebbe giungere anche dopo molte sedute. Una spiegazione fatta nel momento in cui il paziente non è ancora pronto per accettarla potrebbe pregiudicare l’intero processo terapeutico, instaurando forti resistenze da parte sua. Solo dopo aver guidato il malato fino alla soglia della verità, cioè della chiarificazione dei suoi sintomi, sarà lecito aiutarlo a compiere il passo definitivo, che risiede nell’individuazione delle cause originarie del disagio psichico.

[15] Freud a questo punto spiega in che cosa consiste la «resistenza» alla cura, che inevitabilmente si riscontra in ogni percorso terapeutico. Essa dipende dalla difesa che l’Io attiva, inconsciamente, rispetto
all’emergere delle pulsioni represse dell’Es, a cui contrappone forze di segno opposto («controcariche»). Nel momento in cui il soggetto, con la terapia, comincia a scardinare tale barriera, subentra in lui l’angoscia; 
è questo sentimento che lo spinge a rafforzare nuovamente, in modo inconsapevole, la struttura difensiva 
dell’Io, proteggendo in qualche modo la malattia stessa. Lo psicoanalista ha il compito di rassicurare il 
paziente, offrendogli il suo appoggio e creando una condizione anche esteriore di tranquillità, per evitare che 
egli si sottragga alla cura.

[16] L’insieme dei contenuti della memoria, alcuni dei quali, nel caso del nevrotico, sono rimossi nell’inconscio.

[17] In questo brano Freud ripercorre le tappe della terapia psicoanalitica che ha analizzato nelle pagine precedenti, cominciando a descrivere la condizione dell’Io nevrotico. Si tratta di un punto importante, perché offre un orientamento in relazione al tema della differenza tra normalità e patologia. Per l’autore il confine tra 
questi due stati psichici non è così netto, perché nelle persone sane esiste, in modo contenuto, il medesimo conflitto che determina i sintomi dei nevrotici; tuttavia, non tutti hanno la necessità di sottoporsi a un trattamento psicoanalitico poiché, in genere, si riesce a trovare un equilibrio tra le varie istanze psichiche e quindi a condurre un’esistenza sufficientemente serena. Il problema subentra quando il conflitto interiore diventa così acuto da compromettere la vita “normale” dell’individuo, il quale è mosso dalla sua stessa sofferenza a chiedere aiuto a uno specialista. Il caso dell’Io nevrotico descritto in queste pagine è precisamente quello di 
una persona in estrema difficoltà: essa non riesce più a mantenere il proprio ruolo nella società; non dispone dei suoi ricordi, perché molti di questi, essendo in contrasto con le istanze del super-Io, sono stati rimossi; si trova limitata sia rispetto alle proprie attività, che in molti casi non è più in grado di svolgere, sia rispetto alle proprie energie, che risultano estremamente ridotte a causa del dispendio dovuto all’elaborazione di 
complicate difese da opporre alle “minacce” pulsionali. L’Io, in questa situazione di conflitto, risulta «scisso», cioè dilaniato da opposte tendenze e aspirazioni, da pensieri contraddittori, dubbi e insicurezze.

[18] Il percorso dell’analisi è piuttosto lungo e impegnativo: in un primo tempo il paziente interagisce soprattutto a livello intellettuale con il suo analista, cioè apprende le tecniche interpretative e contribuisce alla loro applicazione fornendo materiali. Poco per volta, però, si instaura tra i due soggetti una relazione affettiva (il transfert), per cui il terapeuta ottiene la fiducia del malato e viene a rivestire un ruolo di riferimento e di appoggio, analogo a quello che nel passato hanno avuto le figure genitoriali. Questa fiducia e intimità consentono l’emergere di sentimenti profondi, dimenticati nel tempo, che avevano caratterizzato l’importante periodo dell’infanzia; allo stesso tempo esse permettono la riproduzione di schemi di comportamento che nel contesto dell’analisi possono essere corretti. Se ad esempio un paziente ha avuto un padre molto severo, all’origine di un super-Io inflessibile e di conseguenti vissuti di frustrazione e repressione, nel rapporto con l’analista tenderà a riprodurre l’atteggiamento di sottomissione che gli era abituale, ma avrà ora l’occasione di superarlo proprio con l’aiuto del nuovo “padre-analista” (investito dell’«autorità» del super-Io), che a sua volta proporrà un diverso modello relazionale. In questo contesto, ogni contenuto emerso – sentimento, desiderio, pulsione… – potrà essere criticato senza timore e ricondotto alla sua origine, liberando le 
energie represse fino a quel momento. L’obiettivo dell’analisi è quello di restituire alla coscienza i processi
psichici che erano stati confinati nell’inconscio, generando sintomi incomprensibili e devastanti.

[19] Al buon esito dell’analisi concorrono, secondo Freud, alcuni fattori positivi, come ad esempio l’esigenza razionale di uscire da una condizione di sofferenza o il desiderio intellettuale di conoscere i meccanismi psichici alla base del disagio (aspirazione motivata dall’interesse suscitato dal medico per la teoria psicoanalitica), o ancora i sentimenti della traslazione affettiva. Contro l’analisi, invece, “lavorano” altri fattori 
decisamente negativi: i sentimenti ostili che spesso fanno parte della traslazione affettiva stessa; la resistenza alla cura, che comporta un periodico rafforzarsi delle barriere difensive del paziente; ma soprattutto 
il senso di colpa generato dal super-Io, il quale, come dice Freud in un altro passo, durante la terapia diventa particolarmente «duro e crudele» proprio perché avverte l’allentarsi delle difese contro pulsioni che giudica inaccettabili, e quindi induce nell’Io la convinzione di meritare una punizione. A questo proposito si può 
osservare come i malati spesso sostituiscano la sofferenza nevrotica con un’altra di origine somatica, appunto per non sottrarsi alla “meritata” sanzione. Al decorso del caso clinico contribuiscono ulteriori elementi negativi, come la pigrizia mentale o la scarsa elasticità del paziente, che può essere in particolare difficoltà di fronte all’esigenza di modificare pensieri e sentimenti. Alla terapia possono però concorrere altri 
fattori positivi, come la tendenza a “sublimare” gli istinti – cioè la capacità di trasferire su oggetti spirituali, 
quali la conoscenza, la creazione artistica ecc., l’energia pulsionale che non può essere completamente 
esplicata nella realtà -, o, ancora, la presenza di elevate possibilità intellettuali, che permettono di procedere più speditamente nella terapia grazie all’attitudine del paziente a valutare le cose da prospettive diverse e 
a mettere in discussione convinzioni acquisite.

[20] L’eziologia è la scienza delle cause; qui ci si riferisce al fatto che il primo periodo dell’infanzia gode di una considerazione privilegiata nella ricerca delle “cause” della nevrosi.

[21] Freud ritiene che nella considerazione dell’origine delle nevrosi si debba tenere conto di due aspetti: la natura delle pulsioni inconsce e l’epoca della vita in cui la nevrosi insorge. In questo brano Freud analizza il secondo, riconoscendo senz’altro l’infanzia come età “privilegiata” dell’instaurarsi della nevrosi. Anzi, il 
periodo critico per il consolidamento di un disturbo psichico viene individuato nei primissimi anni di vita, fino 
al sesto, cioè quando 1’Io del soggetto è più debole e incapace di resistere allo strapotere della realtà esterna o del super-Io, che si identifica con il genitore. In tale fase l’Io non ha altra via di scampo se non la “fuga”: 
ad esempio, il bambino vuole soddisfare il suo desiderio sessuale toccandosi i genitali, ma il genitore lo sgrida; egli allora rimuove quel desiderio, lo allontana da sé, dalla sua sfera cosciente. Possiamo dire che esso sia
distrutto? Certamente no: è stato soltanto confinato nell’inconscio, da cui però si fa sentire o si farà sentire a distanza di anni, attraverso sintomi patologici.

[22] Wilhelm Roux (1850-1924) pose le basi della “meccanica dello sviluppo biologico”. La “schizogenesi” è la riproduzione per divisione; l’individuo monocellulare forma, per semplice scissione del suo corpo, due o più nuovi individui.

[23] A nessun essere umano sono risparmiate tali «esperienze traumatiche» (di frustrazione), e il fatto che 
esse abbiano una presa così grande sui bambini è dovuto alla particolare fragilità della loro psiche. Le nevrosi, inoltre, sono tanto più frequenti quanto più la civiltà è progredita e avanzata. Per l’uomo civilizzato, infatti, è più difficile essere psichicamente sano rispetto a un selvaggio, perché sono maggiori le pressioni che subisce a livello sociale e minore è la libertà di manifestare le proprie pulsioni. Nell’instaurarsi della nevrosi è poi assai rilevante il ruolo repressivo della famiglia, depositaria delle istanze morali della società, a causa della 
prolungata dipendenza del bambino dai genitori, cioè da coloro che rappresentano l’autorità e il Super-io.

[24] Freud spiega in questo passo i caratteri della sessualità infantile, con una particolare attenzione per 
quella maschile. Il bambino indirizza la sua prima pulsione sessuale verso il seno della madre, da cui riceve 
non solo nutrimento, ma anche affetto e gratificazione. La prima forma di sessualità infantile non è, dunque, quella genitale, bensì quella orientata al piacere della suzione. Il bambino all’inizio non distingue il seno materno dal proprio corpo; dunque la pulsione alla suzione è originariamente narcisistica. e solo in un secondo tempo viene trasferita all’oggetto “esterno” identificato con la madre («la prima seduttrice»). La relazione madre-bambino sarà modello per tutti i successivi legami sentimentali in entrambi i sessi. Freud sottolinea ancora come l’esperienza della suzione sia universale e dunque talmente radicata nella memoria filogenetica 
(cioè nella memoria della specie umana) da non essere pregiudicata nemmeno in caso venisse meno la possibilità dell’allattamento al seno: la bocca e la suzione rappresentano comunque le prime zone erogene e 
quelle da cui il bambino – anche allattato con il biberon – trae le sue prime gratificazioni, condizionando le successive esperienze erotiche.

[25] Dai due ai tre anni il bambino (Freud sta qui considerando il caso del maschio) entra nella fase fallica, in cui trae piacere dal suo organo sessuale e comincia a nutrire attrazione verso la madre avvertendo il padre come un rivale, che egli tenta di sostituire. Il racconto mitico di Edipo ha tradotto tale immaginario infantile in una rappresentazione simbolica di valore universale.

[26] È in questa fase che i divieti della madre relativi all’esibizione del pene, o alla sua manipolazione al fine di trarne piacere, vengono interpretati dal bambino come minacce di castrazione, e tradotte nella paura 
verso il padre che ne sarebbe l’esecutore in quanto rappresentante dell’autorità. L’idea della castrazione diventa tanto più terribile e traumatica se il bambino ha avuto occasione di vedere i genitali della bambina, che egli coglie come “mancanti”, privi della parte per lui fondamentale.

[27] Nel brano Freud analizza gli effetti del complesso di castrazione sulla bambina, la quale, a differenza del maschio, non teme di perdere il pene, ma deve reagire alla sua “mancanza”. Come è stato osservato dalla critica, Freud sembra risentire di una mentalità maschilista, in quanto presenta la donna come un essere “mancante”, in “difetto” rispetto al maschio, e non ne individua, invece, le caratteristiche peculiari e specifiche. Per lui la bambina fin da piccola prova invidia per il pene e soffre del fatto di esserne priva, vivendo questa condizione come una carenza e sviluppando un senso 
di inferiorità. Nella fase fallica abbandona ben presto la pratica della masturbazione, giudicata insufficiente, e si allontana dalla sessualità.

[28] Secondo l’autore, il desiderio di rendersi simile ai ragazzi può continuare nella vita adulta generando 
atteggiamenti omosessuali, o spingendo la ragazza a scegliere attività e professioni tipicamente maschili. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, ella trasferirà il sentimento di amore nutrito verso la madre – che caratterizza indifferentemente i due sessi nella primissima infanzia – verso un’altra persona: il padre. In ciò è favorita dal rancore nutrito verso la genitrice, a cui imputa il fatto di averla messa al mondo in condizione di inferiorità rispetto al maschio. Secondo Freud, quando si perde un oggetto d’amore il processo psichico «più 
naturale» che si innesca è quello dell’«identificazione», cioè dell’introiezione dell’oggetto amato e perduto, a cui si cerca di assomigliare: la bambina si identifica allora con la madre – per quanto odiata come rivale e 
come causa della sua inferiorità – e rivolge il suo amore al padre. Il desiderio verso il padre sostituisce quello 
precedente di possedere il pene e viene a sua volta sostituito nel tempo con il desiderio di avere da lui un 
bambino (nella simbologia onirica il “bambino” è per Freud un tipico simbolo fallico).

[29] Nel mito greco, Elettra era la figlia di Agamennone e di Clitemnestra; quest’ultima, con il suo amante Egisto, uccide Agamennone. Elettra, per vendicare il padre, spinge il fratello Oreste a uccidere, a sua volta, la madre e il suo amante.

[30] Freud a questo punto sottolinea come nella femmina il rapporto tra complesso di castrazione e complesso edipico sia invertito rispetto al maschio: in quest’ultimo la minaccia della castrazione pone fine al 
complesso di Edipo – in quanto il bambino cede di fronte al padre e rinuncia alle pretese sulla madre, mantenendo soltanto una particolare dipendenza nei suoi confronti -; nella bambina, invece, il complesso di 
castrazione dà inizio al complesso edipico (che nella donna si precisa come «complesso di Elettra»), cioè 
all’attaccamento verso il genitore di sesso opposto. La risoluzione di quest’ultimo è meno netta e definitiva 
nella ragazza, che spesso conserva un particolare amore per il padre, il quale diventa il modello di ogni suo 
futuro compagno. L’ambizione di possedere il pene verrà appagata dall’attrazione verso colui che lo possiede 
e dal desiderio conseguente di avere un figlio da lui.

[31] I sostenitori della psicoanalisi.

[32] Il riferimento allo specchio presente nel brano rinvia a un concetto elaborato dallo psicanalista francese Jacques Lacan (Parigi 1901-1981), per il quale il processo di “identificazione di sé”, cioè di riconoscimento della propria separata e specifica individualità, avviene attraverso la cosiddetta “fase dello specchio”. In questa fase il bambino (intorno ai diciotto mesi) guardandosi allo specchio riesce a identificarsi con l’immagine riflessa, cioè a riconoscersi e a formare il primo nucleo della propria personalità. Irigaray, assumendo come simbolo della propria concezione lo speculum, cioè lo strumento che viene utilizzato in ginecologia per esaminare e controllare l’interno dell’organo sessuale femminile, vuole contrapporsi esplicitamente all’immagine della donna come riflesso “negativo” dell’uomo; ciò che lo specchio mostra alla bambina è, per la tradizione freudiana, una carenza, una mancanza rispetto al maschietto; ciò che viene mostrato dallo speculum è invece la specificità di un organo “differente” da quello maschile, ma avente il medesimo valore.

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