Le teorie della razza tra 800 e 900

Le teorie della razza tra Ottocento e Novecento

Distinguiamo anzitutto le teorie elaborate tra Settecento e Ottocento prima della pubblicazione dell’Origine delle specie di Darwin (1859) e dopo la diffusione negli ambienti scientifici europei della teoria dell’evoluzione.

 

Le teorie monogenetiste

Nella cultura tra fine Settecento e primo Ottocento, emergono alcune contraddizioni significative, che investono anche la sfera della riflessione sulle razze, riferibili da una parte al bisogno della borghesia europea di mantenere e rafforzare anche dal punto di vista ideologico il dominio coloniale nelle forme tradizionali della schiavitù nelle piantagioni del ‘Nuovo Mondo’ e dall’altra di contestare l’antica società divisa in ordini in nome di un ideale di eguaglianza anch’esso non più ideologicamente fondato solo sul cristianesimo ma su principi razionali validi universalmente. Le affermazioni solenni circa l’esistenza di universali diritti ‘dell’uomo e del cittadino’ entrano in conflitto con l’esigenza di escludere dal novero dei titolari di questi diritti i ‘rossi’ abitanti del continente americano e i ‘neri’ trapiantati in America, imponendo l’elaborazione di teorie atte a giustificare l’eccezione alla regola.

Se ci si mantiene all’interno del tradizionale monogenetismo biblico, si profilano due tipi di spiegazioni circa l’esistenza di varietà (le razze) all’interno della unica specie umana, ambedue adattabili all’esigenza di dimostrare che, seppur unica, la specie umana è però gerarchicamente ordinata in una scala di valori che consente di affermare la superiorità dell’uomo bianco.

 

La teoria degenerativa

La prima è la teoria della degenerazione dal tipo primordiale della specie, enunciata per la prima volta in modo organico dal grande naturalista francese Buffon nella sua Storia naturale e articolata pienamente da un suo seguace tedesco, Blumenbach, in un’opera significativamente titolata De generis humani varietate nativa, pubblicata a Gottinga nel 1795. La tesi è che il tipo primordiale umano sia riscontrabile nel ‘tipo caucasico’ di pelle bianca comparso in prossimità del Mar Caspio e che le varietà ‘gialla’, ‘rossa’ e ‘nera’ siano il prodotto di una progressiva degenerazione del tipo bianco in relazione a ‘diversi mutamenti’ intervenuti ‘a causa dell’influenza del clima, della differenza dell’alimentazione e del modo di vita, delle malattie epidemiche e anche dell’ibridazione, variata all’infinito, di individui più o meno simili l’uno all’altro’. Evidentemente una tesi del genere prevede l’ammissione della trasmissibilità di alcuni almeno dei caratteri acquisiti, nonostante sia Buffon che Blumenbach rivelino perplessità nello spiegare come mai alcuni caratteri si trasmettano e altri no, tanto da arrivare a parlare di ‘agenti sconosciuti’ che rendono ragione della costanza di alcuni ‘ indicatori razziali.’

Con Blumenbach assistiamo all’avvento di una modalità di indagine sulle differenze razziali destinata a grande successo alcuni decenni più tardi: la misurazione dei crani. Blumenbach possedeva la più grande raccolta di crani d’Europa, ben 82, ed utilizzò per il loro studio un metodo originale, consistente nel disporre e osservare i crani ‘in norma superiore e posteriore, situati in fila sullo stesso piano, con gli ossi molari sulla stessa linea orizzontale con i mascellari inferiori’ Il criterio di classificazione è sorprendente ma non inconsueto: si tratta, infatti, di un criterio estetico, basato evidentemente su categorie desunte dalla tradizione artistica occidentale, e in particolare greca. Non stupisce quindi che risulti evidente a Blumenbach che il tipo caucasico possieda la forma ‘più bella e simmetrica’ e che da questa ‘come da un tipo medio e originario, le altre divergono per semplicissime gradazioni da entrambi i lati fino ai due estremi (da un lato la razza mongolica, dall’altro quella etiopica)’. Anche Buffon si lancia in considerazioni di questo tipo: ‘Il clima più temperato si trova tra il 40° e il 50° grado di latitudine; esso produce gli uomini più belli e più ben fatti. E’ da questo clima che devono essere derivate le idee del colore genuino dell’umanità e dei vari gradi di bellezza’.

 

La teoria evolutiva

Analogo criterio estetico è presente in un’altra teoria monogenetista delle varietà razziali, quella di James Prichard, esposta nel suo Researches into the physical history of mankind, pubblicato a Londra nel 1813, nonostante essa sia apparentemente opposta alla prima, in quanto, in luogo della degenerazione dal bianco al nero, prevede invece un’evoluzione dal nero al bianco, avvenuta in virtù del progresso della civiltà che avrebbe condotto gli uomini ad una inconscia selezione matrimoniale basata sul criterio della bellezza (ovviamente europea e bianca): ‘In tutti i paesi la bellezza è l’elemento principale che dirige gli uomini nella scelta della moglie […] E’ ovvio che questa peculiarità nella costituzione dell’uomo deve avere effetti considerevoli sul carattere fisico della razza e che deve agire come principio costante di miglioramento, svolgendo nel nostro genere quella funzione di controllo che noi esercitiamo sulla creazione bruta. Questa è probabilmente la causa finale che ispirò la Provvidenza a inculcare nella nostra natura la percezione istintiva della bellezza umana. L’idea di bellezza di una persona è infatti sinonimo di salute e perfetta organizzazione.

 

Le teorie poligenetiste

In tutti e due i casi, comunque, la ‘scala delle differenze’ pone il bianco al primo e il nero all’ultimo posto. Se si va invece a guardare agli ambienti intellettuali più audaci e anticonformisti, volti a contestare il primato della Sacra Scrittura per l’interpretazione dei nuovi dati a disposizione dell’uomo moderno grazie all’ampliamento degli orizzonti dovuto alle scoperte geografiche e scientifiche, troviamo una teoria razzista più cruda ed esplicita, che supera d’un balzo il problema dell’universalità negando alle razze ‘inferiori’ l’appartenenza alla stessa specie dell’uomo bianco: il poligenetismo. Intellettuali noti per il loro contributo determinante alla ‘rivoluzione culturale illuminista’ ne sono convinti sostenitori.

Due esempi per tutti: Voltaire combatte la sua battaglia per la laicizzazione della cultura anche così: ‘Noi impariamo […] attraverso i viaggi dei portoghesi e degli spagnoli quanto piccola sia la nostra Europa e quale varietà regni sulla terra(vai al testo n.1).

Lo scettico Hume, in qualità di soprintendente dell’Ufficio coloniale inglese nel 1776, così si esprime con molta sicurezza induttiva: ‘Sono disposto a sospettare che i negri e in generale tutte le altre specie di uomini (perché ve ne sono quattro o cinque tipi diversi) siano per natura inferiori ai bianchi(vai al testo n.2).

 

Il concetto di specie

Il poligenetismo conobbe la sua stagione di successo negli Stati Uniti, dove venne ‘importato’ da uno svizzero, L. Agassiz (1807-1873), che proprio a contatto con la realtà etnicamente differenziata degli Stati Uniti si convertì a questa teoria, dedicando alla sua dimostrazione e argomentazione tutta la sua esistenza di studioso. Di estremo interesse risulta la lettera che Agassiz scrisse a sua madre non appena giunto a Filadelfia nel 1846, in cui rivela il carattere totalmente irrazionale della sua improvvisa conversione al poligenetismo a seguito di esperienze del tutto emotive, confessando implicitamente di avere dedicato la sua vita alla dimostrazione della teoria partendo da un ‘pregiudizio’ tutt’affatto extra-intellettuale: ‘Ero a Filadelfia quando per la prima volta mi trovai a contatto continuato con dei negri: tutti gli inservienti del mio albergo erano uomini di colore’ (vai al testo n.3). La teoria poligenetistica viene, secondo Agassiz, confermata dal fatto che le razze umane si presentano come gruppi ‘geneticamente distinti e temporalmente invarianti con gamme geografiche discrete’ e pertanto rispondono ai criteri biologici necessari per definirle specie separate. Ovviamente la differenza di specie non è neutra, ma gerarchicamente ordinata: ciascuna razza o specie (vai al testo n.4) occupa un gradino nella scala delle differenze e la razza nera continua a occupare l’ultimo. E’ pertanto per Agassiz impossibile garantire ai neri l’eguaglianza sociale, da lui definita ‘assolutamente impraticabile’ in quanto ‘impossibilità naturale che sgorga dallo stesso carattere della razza negra’ I negri, infatti, sono ‘indolenti, giocosi, sensuali, imitativi, remissivi, di buona natura, versatili, instabili nei loro propositi, devoti, affezionati: sono differenti da tutte le altre razze e possono essere paragonati a bambini cresciuti fino ad assumere le dimensioni di adulti, pur conservando una mente infantile’. Per questo egli paventa principalmente una eventuale mescolanza della razza bianca con la nera, possibile, nonostante la ‘naturale avversione’ che si dovrebbe provare nei confronti dell’accoppiamento con individui di specie diversa, a causa della ‘ricettività sessuale’ delle donne nere e dell’inclinazione al libertinaggio degli uomini bianchi; questa mescolanza produrrebbe una vera catastrofe per la civiltà: ‘Si immagini per un momento la differenza che farebbe in età future, per la prospettiva delle istituzioni repubblicane e per la nostra civiltà in genere, se invece della virile popolazione discesa dalle nazioni congiunte, gli Stati Uniti dovessero essere abitati in futuro dalla effeminata progenie di razze miste, mezze indiane, mezze negre, sparse di sangue bianco.[…] Tremo per le conseguenze! […] In che modo sradicheremmo il marchio di una razza inferiore una volta che sia stato permesso al suo sangue di scorrere liberamente in quello dei nostri figli?’

Il suggerimento di Agassiz va nella direzione di un vero e proprio apartheid: occorre indurre i neri a trasferirsi in massa in alcune regioni degli USA (le pianure del sud), dove vivrebbero segregati in ‘riserve’, come cominciano a fare i ‘pellerossa’ dietro la spinta del genocidio perpetrato dai coloni bianchi. In questo modo Agassiz può conciliare il suo razzismo con il suo antischiavismo: è più pericoloso e ‘inquinante’ per la razza bianca accettare di convivere con la nera, seppure in condizione di dominanza, piuttosto che segregare i neri, impedendo loro ogni contatto con la razza superiore.

 

La craniometria

E’ nell’ambito del poligenetismo statunitense che proseguono le fortune della craniometria. George Morton, scienziato e medico di Filadelfia, si ispira al poligenetismo, come Agassiz, di cui può considerarsi ispiratore, cercando di fornire alla teoria una solida base ‘sperimentale’ grazie alla sua imponente collezione di crani prevalentemente di indigeni (circa 600), arricchita da una sezione ‘egizia’ di crani provenienti dalle tombe dell’antico Egitto. Il criterio seguito da Morton per la classificazione delle razze-specie in una scala gerarchica è la misurazione della grandezza media dei cervelli, realizzata riempiendo i crani di materiale (dapprima semi di senape bianca e poi pallini di piombo), versando, quindi, il materiale in un cilindro graduato e misurando il volume del cranio in pollici cubi. Morton rese pubblici i risultati dei suoi esperimenti in due volumi che gli assicurarono fama mondiale; uno, Crania Americana, del 1839 e l’altro, Crania Aegyptiaca, del 1844; infine, nel 1849, pubblicò il compendio di tutti i risultati ottenuti riguardo ai volumi cranici medi disposti per razze. I lavori di Morton sembravano per la prima volta conferire esattezza matematica, e pertanto incontrovertibile verisimiglianza, alla tesi dell’inferiorità delle razze diverse dalla bianca, avendo egli studiato i crani dei ‘pellerossa’ e quelli dei neri presenti nelle tombe egiziane e riscontrato il minor volume dei loro cervelli e pertanto la ‘diversità della struttura della loro mente’ rispetto all’uomo bianco. Le manipolazioni operate da Morton sul campione di crani che aveva a disposizione onde ‘dimostrare’ una tesi preconcetta sono così scoperte ed ingenue da indurre Gould a osservare: ‘Durante l’estate del 1977, ho trascorso parecchie settimane a rianalizzare tutti i dati di Morton (Morton, l’autodesignato obiettivista, pubblicò tutta la sua informazione grezza. Possiamo dedurre con scarsi dubbi in che modo procedette dalle misurazioni grezze fino alle tavole di compendio). In breve, e per dirla esplicitamente, i compendi di Morton sono un mosaico di fandonie e mistificazioni nel chiaro interesse di verificare convinzioni aprioristiche. Tuttavia – e questo è l’aspetto più affascinante del caso – non ho trovato alcuna prova di frode cosciente; invero, se Morton fosse stato un truffatore, non avrebbe pubblicato i suoi dati così apertamente.[…] La prevalenza di mistificazioni inconsce, d’altro canto, suggerisce una conclusione generale sul contesto sociale della scienza. Perché se gli scienziati possono essere onestamente autoingannati sino al livello di Morton, allora il pregiudizio sottostante può essere trovato ovunque, anche nei fondamenti del misurare ossa e fare somme’.

Morton scelse tra i crani che aveva a disposizione quelli che meglio si prestavano a confermare le sue tesi, ‘omettendo’ di inserire nella serie da cui avrebbe desunto la media quelli ‘imbarazzanti: così non prende in considerazione i crani di irochesi (che sono assai capaci) e immette nel campione un gran numero di crani di peruviani incas di piccola statura e cranio piccolo, ottenendo così agevolmente una media più bassa di quella bianca; quest’ultima, ottenuta omettendo di considerare nel campione i crani indù, più piccoli di quelli europei. Nel caso dei crani ‘egizi’ Morton basa la sua tesi della ulteriore inferiorità dei neri anche rispetto agli indiani immettendo nel campione crani femminili in prevalenza su quelli maschili e ottenendo così una media ancora più bassa. Viceversa il campione bianco è prevalentemente composto, come è ovvio, di crani maschili. Per di più Morton non ha mai calcolato (o quantomeno pubblicato) medie per sesso e statura, compiendo così un’omissione procedurale di tale ingenuità da rivelare la rigidezza preconcetta della sua ‘ipotesi di lavoro’.

 

 

 

Darwin e la teoria evoluzionistica

Come abbiamo detto all’inizio, la pubblicazione delle opere di Darwin (L’origine delle specie nel 1859 e L’origine dell’uomo nel 1871) costituì una svolta anche per la storia delle teorie sulla razza. Anzitutto l’evoluzionismo darwiniano rende inutile il poligenetismo, dal momento che spiega le differenze esistenti tra le varietà o fra le specie viventi come risultato di un processo di selezione naturale rispetto a variazioni del tutto casuali di un tipo originario. Da questo punto di vista l’evoluzionismo non giustificherebbe alcun atteggiamento gerarchico, dal momento che la sopravvivenza della varietà ‘più adatta’ risulta un puro dato di fatto, non suscettibile di giudizi di valore. E’ però indubbio che già nello stesso Darwin, seppure marginalmente, e ancor più nei suoi seguaci ‘ideologi’, la ‘lotta per l’esistenza’ e la ‘sopravvivenza del migliore’ diventano argomenti atti a supportare il senso di superiorità della razza bianca nei confronti delle popolazioni ‘selvagge’ o ‘primitive’, la superiorità degli inglesi rispetto ai loro concorrenti europei e, all’interno della razza bianca, la superiorità sociale delle classi dominanti su quelle subalterne.

Sentiamo Darwin in proposito: ‘Tutto ciò che sappiamo intorno ai selvaggi, o che possiamo dedurre dalle loro tradizioni o dai monumenti antichi, la cui storia è completamente dimenticata dagli abitanti attuali, dimostra che dai tempi più remoti le tribù più dotate soppiantavano le altre(vai al testo n.5).

Estremamente eloquente a proposito dell’apologetica evoluzionistica dell’imperialismo britannico e della struttura sociale gerarchica è l’uso che fa Spencer delle categorie fondamentali della teoria darwiniana. Le guerre coloniali, il dominio di una nazione sulle altre, la gerarchia sociale, la distinzione rigida fra attività ‘nobili’ e attività ‘umili’ o degradanti riferita a determinate classi sociali, tutto viene ricondotto alla evoluzione naturale (vai al testo n.6).

Questa impostazione produce effetti ideologici simili a quelli del vecchio poligenetismo: se la selezione avviene tramite unione sessuale di individui appartenenti a varietà ‘migliori’, è sconsigliabile una totale libertà di scelta sessuale e l’eugenetica può fare la sua comparsa sulla scena. Il cugino e grande ammiratore di Darwin, Galton, (1822-1911) diventerà strenuo sostenitore, nell’Inghilterra liberale, della necessità di una regolamentazione per legge dei matrimoni e delle famiglie sulla base della dote ereditaria dei genitori. La diffusione delle idee e degli studi di eugenetica di Galton (che aveva fondato una Società per l’educazione eugenetica) attraverso numerosi periodici pubblicati in tutta Europa, produsse soprattutto in Germania un fervore di studi e di attività che, combinati con altri elementi, più tipici della cultura tedesca e di cui ci occuperemo fra breve, fornirono a Himmler i fondamenti teorici per gli esperimenti eugenetici del Terzo Reich.

Nei confronti del più specifico problema delle differenze razziali, l’evoluzionismo si servì, per le sue teorizzazioni, della già tradizionale esperienza craniometrica, rilanciata in grande stile da Broca a Parigi e da Lombroso in Italia, ed elaborò un originale argomento a favore della inferiorità di alcune razze rispetto ad altre con la teoria della ricapitolazione, in parte connessa alla craniometria.

 

Evoluzionismo e craniometria

Broca (1824-1880) stabilì una correlazione significativa fra la grandezza del cervello e lo sviluppo dell’intelligenza, arricchendo così la scala delle differenze di elementi ulteriori, appartenenti alla razza bianca, ma segnati dal ‘difetto’ delle dimensioni cerebrali. Pertanto: ‘Il cervello è più grande negli adulti che nei vecchi, negli uomini che nelle donne, in uomini eminenti piuttosto che in quelli di mediocre talento, nelle razze superiori rispetto alle razze inferiori. […] A parità di condizioni, vi è una sorprendente relazione tra lo sviluppo dell’intelligenza e il volume cerebrale’.

Non pago, però, della misurazione dei soli crani, anche perché preoccupato di alcune ‘anomalie’ riscontrate soprattutto nella misurazione del peso dei cervelli dei ‘grandi uomini del suo tempo’ che rivelava una grande varietà e casi di ‘sottodimensione’ inspiegabili, Broca tentò di mettere in campo altri e diversi criteri di misurazione riguardanti il rapporto tra il radio e l’omero, la dimensione delle labbra, la forma e la dimensione dell’orecchio, il numero delle circonvoluzioni cerebrali e, infine, come asso nella manica, il rapporto tra la parte anteriore e la parte posteriore del cervello. Broca e i suoi collaboratori si convinsero che le funzioni mentali superiori fossero localizzate nella parte anteriore e che la parte posteriore fosse la sede delle funzioni più ‘animali’ del movimento involontario, della sensazione e dell’emozione. Nasce così, sulla scorta di pochi e frammentari dati ‘sperimentali’ la differenziazione fra ‘razze frontali’ (bianchi con lobi frontali e anteriori molto sviluppati), ‘razze parietali’ (mongoli con lobi medi e parietali prominenti) e ‘razze occipitali’ (neri con la parte posteriore molto sviluppata).

Più imbarazzante e foriero di conflittualità, invece, il tema dell’indice cranico, cioè del rapporto tra la larghezza massima e la lunghezza massima del cranio, che distingue i dolicocefali[1] dai brachicefali[2]. Gli studiosi di area germanica avevano già tentato di dimostrare che la brachicefalia era un tratto tipico degli uomini dell’età della pietra cui si erano sostituiti i più evoluti dolicocefali ariani dell’età del bronzo: in particolare Retzius, uno studioso svedese, aveva identificato nei baschi, nei finnici e nei lapponi, gli eredi di quell’umanità inferiore brachicefala soppiantata dagli indo-europei. In questo caso Broca, brachicefalo come la maggioranza dei francesi, scorge l’inganno ideologico contenuto nella teoria e la confuta con grande energia: ‘Dopo il lavoro del sig. Retzius, gli scienziati hanno generalmente ritenuto, senza sufficiente studio, che la dolicocefalia è un marchio di superiorità. Forse è così; ma non dobbiamo dimenticare che i caratteri della dolicocefalia e della brachicefalia furono studiati prima in Svezia, poi in Inghilterra, Stati Uniti e Germania, e che in tutti questi paesi, particolarmente in Svezia, il tipo dolicocefalo predomina chiaramente. E’ una tendenza naturale degli uomini, anche tra quelli più liberi dal pregiudizio, l’appiccicare un’idea di superiorità alle caratteristiche dominanti della loro razza’. Il trionfo del brachicefalo Broca avverrà quando, grazie al ritrovamento dei resti dell’uomo di Cro-Magnon, dotato di un cranio più grande e più dolicocefalo di quello dell’uomo moderno, potrà definitivamente affermare che ‘è a causa del maggior sviluppo del loro cranio posteriore che la loro capacità cranica superiore generale è resa più grande delle nostre’.

Un materialista evoluzionista tedesco, Büchner (vai al testo n.7), trasse dalla craniometria tutte le conseguenze pertinenti ad una concezione razzista della società e del rapporto fra i sessi, oltreché, al solito, del rapporto con le popolazioni dei paesi coloniali.

La ricapitolazione è, come dice Gould, ‘tra le idee più influenti della scienza del tardo secolo XIX’ ed ebbe un ruolo significativo nella classificazione e ordinamento delle razze umane in appoggio e in correlazione stretta con l’antropometria e la craniometria. La dottrina della ricapitolazione in sostanza recita che ogni individuo riassume in sé, nel suo sviluppo embrionale, le varie fasi evolutive delle forme da cui proviene la sua specie. Applicata alle razze umane questa teoria sostiene che gli adulti dei gruppi inferiori devono essere come i bambini dei gruppi superiori, perché il bambino rappresenta ‘un archetipo adulto primitivo’. I negri e le donne sono bambini maschi bianchi, quindi ‘ la rappresentazione vivente di uno stadio ancestrale dell’evoluzione dei maschi bianchi.’ Sulla base di questo criterio il paleontologo americano Cope identificò quattro gruppi inferiori: le razze non bianche, le donne, i bianchi europei del sud in rapporto a quelli del nord, le classi inferiori delle razze superiori. Come disse l’antropologo americano Brinton: ‘l’adulto che conserva più numerosi tratti fetali, infantili, scimmieschi, è indubbiamente inferiore a colui il cui sviluppo è progredito oltre essi. […] Misurati con questi criteri, gli europei, cioè la razza bianca, stanno in testa alla lista, mentre gli africani, cioè i negri, stanno in fondo. […] Tutte le parti del corpo sono state minutamente esaminate, misurate e pesate per erigere una scienza dell’anatomia comparata delle razze’.

I risultati della misurazione delle dimensioni e delle forme dei diversi crani umani vengono utilizzati per dimostrare la tesi della vicinanza tra nero e scimmia, giallo e bambino, teorizzando altresì che gli individui appartenenti alle razze inferiori giungono a maturazione precocemente, e mantengono quindi le caratteristiche di uno stadio più infantile o addirittura scimmiesco, risultando pertanto sostanzialmente ‘immaturi’.

 

La nascita dell’antropologia criminale

Un’altra disciplina nasce verso la fine del secolo in relazione a questa temperie culturale: l’antropologia criminale, il cui campione riconosciuto nel mondo scientifico europeo è Lombroso (vai al testo n.7b).

In questo caso il tema dell’immaturità, dell’‘atavismo’ risulta determinante: l’uomo delinquente di Lombroso, il criminale nato, porta nel suo corpo le stimmate di ataviche tendenze belluine e selvagge che ne fanno una vivente espressione di regressione evolutiva (maggiore spessore del cranio, semplicità delle suture craniche, mascelle grandi, prominenza della faccia sul cranio, braccia relativamente lunghe, rughe precoci, fronte stretta e bassa, orecchie grandi, assenza di calvizie, pelle più scura, maggiore acuità visiva, ridotta sensibilità al dolore e assenza di reazioni vascolari; nel caso delle prostitute Lombroso sostenne di aver rilevato la frequenza di piedi prensili come quelli delle scimmie, con l’alluce notevolmente separato dalle altre dita). La folgorante rivelazione venne a Lombroso esaminando il cranio del brigante Vilella: ‘Questa non era semplicemente un’idea, ma un lampo di ispirazione. Alla vista di quel cranio mi sembrò di vedere tutto d’un tratto, illuminato come una vasta pianura sotto un cielo fiammeggiante, il problema della natura del criminale: un essere atavico, che riproduce nella sua persona i feroci istinti dell’umanità primitiva e degli animali inferiori. Così erano spiegate anatomicamente le enormi mascelle, gli zigomi alti, le arcate sopraccigliari prominenti, le linee solitarie nelle palme delle mani, l’estrema grandezza delle orbite, le orecchie a manico trovate nei criminali, nei selvaggi e nelle scimmie, l’insensibilità al dolore, la vista estremamente acuta, i tatuaggi, l’eccessiva pigrizia, l’amore per le orge e l’irresponsabile brama del male solo per amore del male, il desiderio non solo di spegnere la vita della vittima, ma anche quello di mutilarne il cadavere, di strappare la sua carne e di bere il suo sangue

Ciò che rende ‘deviante’ il criminale nelle società ‘civilizzate’ è comportamento normale nelle società primitive e presso le popolazioni di razza ‘inferiore’. Molte caratteristiche accomunano il criminale nato al selvaggio attuale, come la tolleranza del dolore, la pigrizia, l’incapacità di arrossire, ecc., come si evince da questa analisi della ‘razza inferiore e criminale’ degli zingari, in cui risultano mescolate, e pertanto potenziate, le caratteristiche del primitivismo e della delinquenza congenita: ‘Essi sono vanitosi, come tutti i delinquenti, ma non hanno paura o vergogna. Ogni cosa che guadagnano la spendono per bere e per ornamenti. Possono essere visti a piedi nudi, ma con abiti di colori brillanti e adorni di merletti; senza calze ma con scarpe gialle. Hanno l’imprevidenza sia del selvaggio che del criminale.[…] Divorano carogne mezze putrefatte. Sono dediti a orge, amano il rumore e fanno un grande clamore nei mercati. Uccidono a sangue freddo per rubare e, in passato, erano sospettati di cannibalismo. […] Si deve notare che questa razza, così moralmente bassa e così incapace di sviluppo culturale e intellettuale, una razza che non potrà mai portare avanti alcuna attività e che in poesia non è andata oltre le più misere liriche, ha creato in Ungheria una meravigliosa arte musicale: una nuova prova del genio che, misto all’atavismo, deve essere trovato nel criminale’.

Se ogni tipo di devianza sociale può venire classificato sulla base di criteri evoluzionistici nella collezione lombrosiana del Museo di antropologia criminale, non stupisce che in essa compaiano il pazzo e Davide Lazzaretti, il profeta ribelle del Monte Amiata, l’infanticida e il brigante Schiavone, lo stupratore e Passanante, il mafioso e il comunardo, il camorrista e l’anarchico. Tutto ciò che turba l’ordine costituito viene estromesso dal novero degli elementi costituenti la ‘civiltà’ e relegato in un passato ancestrale che va esorcizzato anche attraverso un’opera di preventiva identificazione e segregazione degli individui che ne sono portatori. Il brigantaggio sardo può così venire interpretato da un giovane seguace di Lombroso, Niceforo, peraltro di sicuri sentimenti liberal-democratici e su altri terreni capace di sfuggire alle semplificazioni del riduzionismo, come una manifestazione di diversità razziale dei sardi rispetto agli abitanti del resto d’Italia: ‘In quella zona così storicamente isolata e che è appunto il centro dell’isola, si radunò, sin dai primi tempi, una popolazione ribelle ad ogni idea di mutamento, una popolazione che aveva del selvaggio nelle vene, che non fu mai d’accordo né coi Cartaginesi né coi Romani, né coi Bizantini, né con gli Spagnoli, né coi Piemontesi, né con gli Italiani di oggigiorno. Altri chiamerà ciò robustezza e vigoria, noi chiamiamo ciò non adattabilità della razza, impossibilità di progredire, di evolversi. E’ una popolazione cristallizzata, immersa in un passato che non ha più ragione di esistere, e che, pur avendo coscienza del presente, non si mette a battere la strada nuova che le si apre dinanzi: è popolazione che non può e non vuole prendere parte alla grande e meravigliosa costruzione della società attuale.

[1] Dolicocefalìa – Forma della testa (o del cranio) caratterizzata dal prevalere della lunghezza sulla larghezza. Più precisamente un soggetto viene definito dolicocefalo quando il rapporto percentuale fra larghezza e lunghezza assume un valore massimo pari a 75,9 (o 74,9 se determinato sul cranio secco). Lo studio dei crani fossili ha dimostrato che la dolicocefalìa era una caratteristica pressoché costante tra le forme umane diffuse nel Paleolitico superiore. Nel Mesolitico, e in particolare nel Neolitico, in varie aree geografiche è documentato un graduale trapasso alla brachicefalìa. Attualmente la dolicocefalìa è particolarmente accentuata nei tipi umani nordico (Svezia, Norvegia, Danimarca), mediterraneo (Italia meridionale, Francia meridionale, Spagna, Portogallo), eschimide, cafro e australiano.

[2] Brachicefalìa – Forma tondeggiante della testa che si esprime con un rapporto molto vicino a 1 fra la lunghezza (dtanza tra gabella, siòòa fronte, e opistocranion, sulla nuca) e la larghezza (distanza fra due punti antropologici posti sui fori uditivi). La brachicefalìa è assente in Australia, rara in Africa, predominante nell’Asia nordhimalayana e nell’Asia Minore, fra le popolazioni del centro Europa e fra quelle americane lungo la costa del Pacifico; in Oceania sono brachicefali solo i Polinesiani. Tutte le forme fossili umane o umanoidi più antichesono dolicocefale. I più antichi crani fossili brachicefali sono quelli di Ofnet in Baviera e di Borreby in Danimarca, che risalgono rispettivamente al 7000 e al 5000 a.C.

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