Il tempo degli antichi

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Il tempo degli antichi

La filosofia sviluppa la propria concezione del tempo partendo dalle premesse poste dal mito e dall’épos. Avremo così, fin dai primi pensatori, il contrapporsi di
una struttura lineare e di una struttura ciclica, anche se sarà il secondo modello a godere, nell’ambito del mondo antico, di maggior successo. Tuttavia, assai
precocemente cominciano a porsi anche altri problemi: il tempo esiste effettivamente o è solo un’illusione, un modo in qualche misura deformante di cogliere la realtà? Ovvero, ponendo la questione in termini meno radicali: il tempo appartiene a tutto l’essere o soltanto ai suoi livelli inferiori? Ancora: il tempo è una realtà pienamente oggettiva, oppure la sua natura dipende in qualche misura dal soggetto che ne fa esperienza? Così, già nell’età antica gran parte delle questioni che verranno poste successivamente sul tempo hanno trovato una loro prima formulazione.

 

Testo 4 – Anassimandro: l’ordine del tempo

Il tema del tempo è presente, direttamente o indirettamente, fin dai primordi del pensiero greco: la parola compare nel più antico frammento pervenutoci dell’esperienza filosofica arcaica.

 

Principio delle cose che sono è l’illimitato [ … ] e donde è la generazione per le cose che sono, là è anche la distruzione, secondo il dovuto; esse, infatti, si pagano reciprocamente la pena 
e l’espiazione dell’ingiustizia, secondo l’ordine del tempo[1].

Anassimandro, DK 12 8 l

 

Testo 5 – Eraclito: tempo e lógos

Eraclito condivide nella sostanza la concezione ciclica del tempo, ma cerca, contemporaneamente, di ricondurre la dimensione del divenire, che è considerata l’elemento centrale del suo pensiero, a un principio più profondo e permanente.

 

Il tempo è un bambino che gioca muovendo le pedine: il regno di un bambino[2].

Eraclito, DK 22 852

 

Negli stessi fiumi ci immergiamo e anche non ci immergiamo, siamo e anche non siamo[3].

Eraclito, DK 22 849a

 

Questo ordine del mondo, lo stesso per tutti, nessuno degli dèi né degli uomini lo ha costruito, ma sempre era, è e sarà, fuoco sempre vivo che secondo misura si accende e secondo misura si spegne[4].

Eraclito, DK 22 B30

 

Testo 6 – Parmenide: la negazione del tempo

Con Parmenide si ha la prima radicale svalutazione del tempo e la sua prima altrettanto radicale contrapposizione all’eternità: tale atteggiamento sarà destinato, sia pure in forma più sfumata, a una notevole fortuna in gran parte del pensiero greco successivo e anche oltre. Il tempo viene ridotto a un’illusione che non può appartenere all’essere autentico.

 

Né una volta era, né sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, continuo[5]. Quale nascita[6], infatti, ricercherai di esso? Come, da 
dove sarebbe cresciuto? Dal non-essere non ti concederò né di dirlo né di pensarlo. Infatti non si può dire né pensare in quanto non è. E quale necessità mai lo avrebbe spinto a nascere dopo piuttosto che prima, se derivasse dal nulla? Così è necessario o che sia tutto intero o che non sia affatto. Né mai dall’essere
ammetterà forza di persuasione che nasca qualcosa accanto a 
esso. Per questo motivo né il nascere né il perire gli concesse la Giustizia, sciogliendolo dai ceppi, ma ce lo tiene[7]. Il giudizio su tali cose sta in questo: è o non è. Si è dunque deciso, come è necessario, di lasciare una via, in quanto impensabile e inesprimibile (non è infatti la via del vero), e di mantenere l’altra, in quanto è vera. E come potrebbe perire nel futuro, se è. E come potrebbe essere nato? Se infatti è nato, non è; e neppure se mai dovrà essere in futuro. Così la nascita si estingue e della morte non si ha notizia. [ … ]

Parmenide, DK 28 B8, 5-21

 

Testo 7 – Zenone: i paradossi dello spazio e del tempo

Zenone di Elea, allievo di Parmenide, non ha la pretesa di elaborare concezioni nuove, ma piuttosto di portare efficaci argomentazioni a difesa del pensiero del maestro. L’aspetto per noi significativo è che alcuni dei suoi paradossi sono incentrati proprio sul rapporto fra spazio e tempo e sulle difficoltà che ne derivano.

 

Il secondo argomento è quello chiamato “Achille”[8]. Consiste in questo: che il più lento non sarà mai raggiunto nella corsa dal 
più veloce; questo perché è necessario che l’inseguitore prima raggiunga il punto dal quale colui che è inseguito è partito; sicché il più lento necessariamente avrà un qualche vantaggio sull’inseguitore[9].

citato da Aristotele, Fisica, trad. it. di L. Ruggiu, Rusconi, Milano 1995, p. 337

 

Testo 8 – Empedocle: il tempo pendolare

Empedocle propone in modo esplicito una concezione ciclica del cosmo e quindi, indirettamente, del tempo: la sua, anzi, è, propriamente parlando, una concezione pendolare, nel senso che la realtà oscilla all’infinito fra due posizioni estreme caratterizzate da situazioni radicalmente opposte. Fra le due polarità si
ripresentano sempre condizioni intermedie sostanzialmente analoghe, tanto nel percorso di andata quanto in quello di ritorno; in uno di questi tempi mediani si è costituito il mondo così come ci appare.

 

Duplice cosa dirò[10]: ora, infatti, l’uno si accresce fino ad essere una cosa da più elementi, ora invece si scinde venendo ad essere molti da uno. E doppia è la generazione delle cose mortali, doppio il loro venir meno: infatti, l’una è generata e distrutta dalle unioni di tutte le cose, l’altro, prodottosi, si dissipa quando di nuovo esse si separano. E questi elementi, pur permutandosi di continuo, non cessano mai, a volte grazie all’Amicizia convergendo tutti quanti nell’uno, a volte al contrario dalla contesa dell’Odio essendo trasportati in differenti direzioni. E, in quanto risultano di nuovo molteplici quando l’uno si scinde, perciò si generano e il loro tempo non è stabile; ma in quanto, pur permutandosi di continuo, non cessano mai, perciò in eterno sono immobili all’interno del ciclo[11].

Empedocle. DK 31 B 17

 

Testo 9 – Anassagora: il tempo lineare

Con Anassagora emerge all’interno del mondo greco una concezione lineare del tempo. Anche per lui, come per Empedocle, il mondo con le sue differenziazioni sorge dalla relativa separazione degli elementi che erano del tutto amalgamati nella mescolanza originaria; tuttavia, il percorso non è pendolare, bensì univoco: si parte dalla mescolanza per giungere, attraverso un processo di parziale separazione, alla situazione che caratterizza il mondo attuale, ma non si torna allo stato iniziale.

 

E, dopo che l’intelletto cominciò a muovere, da tutto ciò che era mosso si svolgeva un processo di separazione, e tutto quanto l’intelletto mosse venne diviso; e, muovendosi e dividendosi le cose, la rotazione produceva una divisione sempre maggiore[12].

Anassagora, DK 59 B 13

 

L’intelletto, che sempre è, è presente in sommo grado pure ora, dove sono anche tutte le altre cose, nel molto che abbraccia, in ciò che si è formato per agglomerazione e in ciò che si è formato per separazione[13].

Anassagora, DK 59 B 14

 

Testo 10 – Platone: il tempo, immagine mobile dell’eternità

Nel Timeo Platone descrive la generazione del mondo fisico come effetto dell’opera ordinatrice esercitata da un divino artigiano, il demiurgo. Tale descrizione è esplicitamente presentata come un mito verosimile, dal momento che, nella concezione platonica, solo del vero essere può esservi vera conoscenza, cioè conoscenza pienamente razionale: poiché il mondo sensibile rappresenta un’imitazione di quello ideale, esso avrà inevitabilmente scarsa consistenza ontologica e, di conseguenza, di esso e della sua origine si potrà
dare al più una descrizione in forma di racconto. Questa situazione ha comportato fin dall’antichità non pochi problemi interpretativi, in quanto non è chiaro se la narrazione platonica vada intesa alla lettera. Se così fosse, molti 
aspetti del dialogo risulterebbero difficilmente comprensibili, a cominciare dalla descrizione della produzione del tempo, che, nella forma narrativa che ne dà Platone, sembrerebbe avvenuta in un dato momento, cioè, con evidente contraddizione, essa stessa nel tempo. Oggi gli studiosi sono orientati verso un’interpretazione non letterale del Timeo, secondo la quale l’opera plasmatrice del demiurgo rappresenterebbe soltanto in forma mitica l’eterna dipendenza della bellezza e dell’armonia presenti nel mondo sensibile dall’attività che un principio ordinatore esercita sull’inerte ricettacolo materiale con l’imposizione a esso delle forme ideali. In questo caso, le contraddizioni relative alla produzione del tempo verrebbero almeno parzialmente superate: non ci sarebbe, in altri termini, un tempo in cui il mondo, e con esso il tempo stesso, abbia avuto origine.

 

Origine del tempo come immagine dell’eterno

Il Padre generatore, quando osservò questo mondo in movimento e vivente e immagine degli dèi eterni, se ne compiacque, e, rallegratosi, pensò di renderlo ancora più simile all’esemplare.

E, dunque, poiché quell’esemplare è un vivente eterno, così anche quest’universo, per quanto era possibile, Egli cercò di renderlo simile ad esso[14].

Ora, abbiamo notato che la natura del Vivente è eterna, e questa non era possibile adattarla perfettamente a ciò che è generato. Pertanto Egli pensò di produrre una immagine mobile dell’eternità, e, mentre costituisce l’ordine del cielo, dell’eternità che permane nell’unità, fa un’immagine eterna che procede secondo il numero, che è appunto quella che noi abbiamo chiamato tempo[15].

Infatti, i giorni e le notti e i mesi e gli anni, che non esistevano prima che il cielo fosse generato, Egli li generò e produsse insieme alla costituzione del cielo medesimo[16]. E tutte queste sono parti del tempo, e l’«era» e il «sarà» sono forme generate di
tempo, che non ci accorgiamo di riferire all’essere eterno in modo non corretto. Infatti diciamo che esso «era», «è» e «sarà»; invece ad esso, secondo il vero ragionamento, solamente l’«è» si addice, mentre l’«era» e il «sarà» conviene che si dicano della generazione che si svolge nel tempo[17].

In effetti, questi due sono movimenti, mentre ciò che è sempre
immobilmente identico non conviene che divenga né più vecchio né più giovane nel corso del tempo, né l’essere divenuto ad un certo momento, né il divenire ora, né il divenire in avvenire: nulla, insomma, gli conviene di quanto la generazione ha conferito alle cose che si muovono nell’ordine del sensibile, che sono forme del tempo che imita l’eternità, e si muove ciclicamente secondo il numero[18].

[ … ]

Dunque, il tempo fu prodotto insieme con il cielo, affinché, così come erano nati insieme, si dissolvessero anche insieme, se mai dovesse avvenire una loro dissoluzione. E fu prodotto in base al modello della realtà eterna in modo che gli fosse al più alto grado simile nella misura del possibile. Infatti il modello è un essere per tutta l’eternità, mentre il cielo fino alla fine per tutto il tempo è stato generato, è e sarà[19].

 

Creazione dei pianeti come strumenti del tempo

Dunque, in base a tale pensiero e ragionamento del Dio intorno alla generazione del tempo, ossia affinché il tempo si generasse, furono fatti il sole e la luna e cinque altri astri, che hanno nome di 
pianeti, per la distinzione e la conservazione dei numeri del tempo[20].

Platone, Timeo, trad. it. di G. Reale, Rusconi, Milano 1994, pp. 105-109

 

Testo 11 – Aristotele: il tempo, numero del movimento

Nel prendere in considerazione le strutture generali del mondo fisico caratterizzato, in primo luogo, dal mutamento e dal movimento, Aristotele si trova inevitabilmente ad affrontare la questione del tempo che, pur non identificandosi propriamente con il movimento, si presenta come a esso strettamente collegato. La riflessione dell’autore lo conduce, in primo luogo, a individuare una strettissima connessione fra il tempo e lo spazio, per cui il primo risulta definibile soltanto con esplicito riferimento al secondo. Inoltre, si affaccia qui per la prima volta anche la problematica del rapporto del tempo con l’interiorità dell’anima, che verrà in seguito ampiamente sviluppata. La soluzione cui perviene Aristotele non implica una radicale interiorizzazione del tempo, ma esclude, comunque, che esso possa essere pensato senza riferimento alcuno al soggetto. Come gran parte del suo pensiero, anche la concezione del tempo di Aristotele, malgrado le esplicite prese di distanza, risente dell’influenza del platonismo: il tempo continua a essere immaginato essenzialmente come la causa dell’inevitabile corruzione che caratterizza il mondo fisico e, al più, come un tentativo approssimativo di imitazione dell’eternità.

 

Che cosa il tempo è e qual è la sua natura, inoltre, non è per nulla 
chiaro, stando a quanto ci è stato tramandato, e anche su questi temi 
ritroviamo le difficoltà nelle quali ci siamo imbattuti in precedenza. Taluni affermano infatti che il tempo è il movimento del tutto, mentre altri sostengono che esso è la stessa sfera celeste.

La parte del moto circolare, tuttavia, è ancora un certo tempo, ma non è più moto circolare. Ciò che viene preso, infatti, è parte 
del moto circolare, ma non moto circolare. Inoltre, se esistessero più cieli, allora il movimento di uno qualunque di essi sarebbe tempo, cosicché esisterebbero più tempi simultaneamente.

E la sfera del tutto è parsa a taluni essere tempo, in quanto tutte le cose sono nel tempo e insieme nella sfera del tutto. Ma questa tesi è troppo semplicistica perché se ne debbano esaminare le assurdità che essa presenta[21].

E dal momento che il tempo sembra essere soprattutto movimento e un certo cambiamento, occorre prendere in esame questa tesi.

Ora, ogni cambiamento e movimento è solamente in ciò che cambia, o dove capita che sia la cosa mossa e cambiante. Mentre il tempo è presente ugualmente dappertutto e in ogni singola cosa. Inoltre, ogni mutamento è più veloce o più lento, mentre il tempo non lo è; infatti, lentezza e velocità sono determinate mediante il tempo, e «veloce» è ciò che si muove molto in poco tempo, mentre «lento» è ciò che si muove poco
in molto tempo. Il tempo invece non è determinato mediante il tempo, né rispetto alla quantità né rispetto alla qualità. È dunque evidente che il tempo non è movimento. Né per il momento, per quanto ci riguarda, facciamo differenza tra movimento e mutamento.

Ma il tempo non è neppure senza mutamento. Quando infatti noi non mutiamo nella nostra coscienza, oppure, pur essendo mutati, ci rimane nascosto, a noi non sembra che il tempo sia passato. Allo stesso modo non sembra che il tempo sia trascorso neppure per coloro che, in Sardegna, secondo la leggenda, dormono presso le tombe degli eroi: infatti essi uniscono l’«ora» precedente con quello successivo, facendo di entrambi un unico istante, rimuovendo cioè, a causa dell’assenza di percezione, l’intervallo fra i due istanti. Così come, dunque, se l’«ora» non fosse diverso ma sempre identico e uno, non vi sarebbe tempo, del pari, se tale alterità ci rimane nascosta, non sembra che vi sia del tempo nell’intervallo fra i due. Se dunque la convinzione che non esiste tempo noi l’abbiamo quando non distinguiamo alcun mutamento, ma la coscienza sembra rimanere immutata in uno stesso istante indivisi bile; mentre invece, quando percepiamo l’«ora» e lo determiniamo, allora diciamo che del tempo è trascorso: è allora evidente che, non esiste tempo senza movimento e cambiamento. È chiaro pertanto che il tempo non è movimento, ma neppure è possibile senza il movimento.

Ma dal momento che oggetto della nostra ricerca è che cos’è il tempo, occorre esaminare, prendendo le mosse di là, che cosa esso è del movimento.

Noi percepiamo simultaneamente movimento e tempo. Se siamo infatti nell’oscurità e non subiamo affezioni per il tramite del corpo, e tuttavia un qualche movimento è presente nella nostra coscienza, immediatamente e simultaneamente a noi sembra che anche un certo tempo sia trascorso.

Ma anche, quando noi crediamo che un certo tempo sia trascorso, ci sembra che un certo movimento si sia prodotto simultaneamente. Se ne deve concludere che il tempo o è movimento, oppure è qualcosa del movimento. E giacché esso non è movimento, necessariamente allora è qualcosa del movimento[22].

E poiché ciò che è in movimento si muove da qualcosa verso 
qualcosa, e ogni grandezza è continua, il movimento segue la 
grandezza. E in quanto la grandezza è continua, anche il movimento è continuo; e giacché il movimento lo è, anche il tempo è continuo. Infatti il movimento sembra sempre trascorrere in quantità proporzionale a quella del tempo.

Dunque la differenziazione tra «prima» e «dopo» è originariamente nello spazio: qui naturalmente in rapporto alla posizione. E giacché «prima» e «dopo» sono nella grandezza, necessariamente essi sono «prima» e «dopo» anche nel movimento, perché essi sono, colà, in un rapporto di corrispondenza. Ma allora «prima» e «dopo» sono tali anche nel tempo, dal momento che l’uno segue necessariamente sempre l’altro. «Prima» e «dopo» sono, nel movimento, una stessa cosa con il «ciò che
è già sempre essente» del movimento, invece sono differenti per l’essenza e questa non è identica con il movimento.

Ma il tempo noi lo conosciamo quando determiniamo il movimento, individuando in esso «ciò che è prima» e «ciò che è dopo». E noi affermiamo che «è trascorso del tempo», allorché abbiamo percezione di «ciò che è prima» e di «ciò che è dopo» nel movimento.

E noi lo determiniamo quando assumiamo questi punti l’uno come differente dall’altro e riteniamo che sussista un intervallo differente da essi. Infatti, quando pensiamo i punti estremi come differenti da ciò che sta nel mezzo, e la coscienza li considera come due «ora», l’uno cioè «prima» e l’altro «dopo», allora affermiamo che questo è tempo. In effetti, ciò che è determinato mediante l’«ora», questo è ritenuto essere tempo. E ciò rimanga ormai acquisito.

Quando dunque noi percepiamo l’«ora» come uno – e non come «prima» e «dopo» nel movimento -, e come lo stesso, quello «prima» e quello «dopo», non sembra che alcun tempo sia trascorso, in quanto non si è svolto nessun movimento. Mentre quando percepiamo «ciò che è prima» e «ciò che è dopo», allora parliamo di «tempo». In effetti il tempo è questo: il numero del movimento secondo «prima» e «poi».

Il tempo non è dunque movimento, ma è tale in quanto il movimento ha un numero. C’è una prova di questo: noi infatti giudichiamo il «più» e il «meno» mediante il numero, e determiniamo il «più» e il «meno» del movimento mediante il tempo. Dunque il tempo è una specie di numero. E dal momento che il numero è duplice – noi parliamo infatti di numero sia in riferimento a ciò che è numerato o numerabile, sia in rapporto al mezzo con il quale noi numeriamo -, il 
tempo è allora ciò che è numerato, e non il mezzo mediante il quale numeriamo: è infatti differente «ciò per mezzo del
quale» numeriamo e «ciò che» è numerato[23]. [ … ]

Ogni cambiamento è per natura distruttore. Nel tempo infatti tutte le cose si generano o si corrompono. E per questo gli uni dicevano il tempo «l’essere più saggio», mentre altri, come il pitagorico Parone, «il più ignorante», in quanto in esso si dimenticano le cose: e questa considerazione è più adeguata. È chiaro dunque che il tempo sarà causa, per sé, di distruzione piuttosto che di generazione, come si è detto prima 
(il cambiamento è in effetti per sé distruttivo), mentre esso solo per accidente è causa di generazione e di essere. Una
prova sufficiente è che nulla si genera senza che questo stesso sia in qualche modo mosso e agisca, mentre una cosa si distrugge anche senza che nulla sia mosso. E noi solitamente intendiamo soprattutto questo, quando affermiamo che una cosa è distrutta dal tempo. Ma invero il tempo non fa neppure questo, ma capita che, nel tempo, si produca anche questo mutamento[24]. [ … ]

Ma qualcuno potrebbe sollevare queste difficoltà: il tempo esisterebbe o meno, se non esistesse l’anima? Se non esiste infatti ciò che può numerare, è impossibile che vi sia qualcosa che può essere numerato; sicché è evidente che neppure il numero può esistere. Il numero è, infatti, o ciò che è numerato, o ciò che è numerabile. Ma se null’altro per natura numera eccetto l’anima, e nell’anima l’intelletto, allora è impossibile che esista tempo, se non esiste l’anima, a meno che il tempo non sia identico a «ciò che è già sempre essente», cioè come se si affermasse che il movimento può esistere senza l’anima. Ma «prima» e «dopo» sono nel movimento. E il tempo è queste cose, in quanto esse sono numerabil[25]i.

E si potrebbe sollevare l’ulteriore problema: di quale movimento il tempo è numero? Di qualunque movimento? In effetti, nel tempo le cose si generano e si corrompono, crescono e mutano qualitativamente e sono mosse localmente: ed è di ciascun movimento, proprio in quanto movimento, che vi è un numero. Perciò il tempo è numero in generale del movimento continuo, ma non di un determinato movimento.

Ma è nell’«ora» che le cose possono essere state mosse diversamente, e di ciascun movimento vi dovrebbe essere un numero. Vi è dunque un tempo differente, e quindi vi saranno simultaneamente due tempi uguali, oppure no? In effetti, il tempo è uno e medesimo in quanto assunto come tutto uguale e simultaneo; mentre anche quelli che non sono simultanei, sono uno per la forma. Se infatti vi fossero dei cani e dei cavalli, entrambi in numero di sette, il numero sarebbe lo stesso. Così in rapporto ai movimenti che si sviluppano contemporaneamente, il tempo è il medesimo, mentre il movimento può essere veloce o meno, e l’uno essere un moto locale, l’altro un movimento di alterazione. Il tempo di due movimenti di alterazione e di traslazione è certamente lo stesso, se anche [il numero] è uguale e simultaneo. E proprio per questo, mentre i movimenti sono diversi e separati, il tempo è dappertutto lo stesso, poiché anche il numero è uno e identico dappertutto, in riferimento a cose che sono uguali e simultanee[26].

E giacché v’è moto locale e in esso è compreso il moto circolare, e ciascuna cosa viene numerata mediante una unità dello stesso genere – le unità con unità. i cavalli con un cavallo -, 
così anche il tempo è numerato con un tempo determinato. E, come abbiamo detto, il tempo viene misurato mediante il movimento e il movimento mediante il tempo. (E questo in quanto è sulla base di un movimento determinato dal tempo che viene misurata sia la quantità del movimento che quella del tempo).

Se dunque ciò che è primo, è misura di tutte le cose dello stesso genere, il moto circolare uniforme è misura in senso primario, in quanto il suo numero è ciò che v’è di maggiormente conoscibile. Dunque né il movimento di alterazione né quello di accrescimento o di generazione sono uniformi, mentre il moto locale lo è.

Per questo motivo sembra anche che il tempo sia il moto della sfera celeste, in quanto mediante questo movimento noi misuriamo e gli altri movimenti e il tempo.

E a causa di ciò si comprende anche la convinzione corrente che afferma che gli affari umani sono un circolo, e questa convinzione la si estende alle altre cose che hanno movimento naturale, generazione e corruzione. E questo in quanto tutte le cose sono caratterizzate dal tempo, e hanno fine e principio come fossero in circolo. Anche il tempo, infatti, sembra essere un certo cerchio. E questa credenza si presenta di nuovo in questo modo, in quanto il tempo è misura di un tale moto e esso è misurato da un tale movimento. Sicché dire che «le cose che si generano sono un circolo» equivale a dire che «di esse vi è un circolo di tempo»[27]. E ciò in quanto esso è misurato per mezzo del moto circolare. La misura infatti non sembra essere nulla di diverso rispetto al misurato, eccetto che l’intero è composto di più misure[28].

Aristotele, Fisica, trad. it. di L. Ruggiu, cit., pp. 209-215, 231, 233-237

 

Testo 12 – Gli stoici: la ciclicità assoluta

In età ellenistica la scuola stoica propone un’immagine rigidamente ciclica del tempo e si sofferma anche sulla specificità della sua natura: il tempo esiste, ma in maniera diversa rispetto alle realtà fisiche in esso contenute.

 

Zenone [ … ] pensava che niente mai possa essere prodotto da
una realtà incorporea [ … ] né che possa esser incorporeo ciò che sia capace di produrre qualcos’altro, o che venga prodotto da qualcos’altro.

Cicerone, Academica posteriora, in M. Isnardi Parente (a cura di),

La filosofia dell’ellenismo, Loescher, Torino 1977, p. 137

 

I filosofi della Stoa [ … ] dicono che delle cose determinate alcune sono corporee, altre incorporee; e di quelle incorporee enumerano quattro forme: il significato, il vuoto, il luogo, il tempo[29].

Sesto Empirico, Contro i fisici, in M. Isnardi Parente (a cura di), La filosofia dell’ellenismo, cit., p. 137

 

Zenone, Cleante e Crisippo sono del parere che la realtà si muti come in un fuoco seminale, e che poi l’ordinamento del mondo rinasca da questo nella stessa forma di prima[30].

Stobeo, Florilegio, in M. Isnardi Parente (a cura di), La filosofia dell’ellenismo, Torino, cit., p. 135

 

Vi sarà un altro Socrate e un altro Platone, e così ciascuno degli uomini con i suoi amici e concittadini; e crederanno nelle stesse cose, incorreranno nelle stesse vicende, ogni città, villaggio o campo sarà situato alla stessa maniera[31].

Nemesio, La natura dell’uomo, in M. Isnardi Parente (a cura di), La filosofia dell’ellenismo, cit., p 136

 

Testo 13 – Seneca: la brevità della vita

Lucio Anneo Seneca si inserisce nell’orizzonte culturale dello stoicismo, ma vive ormai nella Roma imperiale del I secolo d.C. Questa differente collocazione storica comporta una particolare curvatura delle posizioni della scuola stoica. Nel De brevitate vitae, in particolare, emerge la disillusione più volte provata da Seneca nel corso della sua esistenza nei confronti dell’attività politica. Mentre in certi momenti la dottrina stoica lo aveva confortato nell’idea che compito del saggio fosse anche quello di impegnarsi nella vita dello Stato, l’affaccendarsi a rincorrere la gloria e il potere gli appare ora, al pari di altre futili attività, un’inutile perdita di tempo. Lo stesso stoicismo, d’altra parte, aveva chiarito che l’impegno politico andava perseguito fino a quando lo si fosse ritenuto utile e fruttuoso per la collettività: quando questo non si fosse più verificato, diventava lecito ritrarsene. È a questa scappatoia lasciata aperta dalla sua stessa scuola filosofica che qui Seneca fa appello. Ma, rispetto ai più antichi maestri della scuola stoica, impegnati soprattutto a delineare l’ordine razionale del tutto, emerge nella riflessione senecana una maggiore attenzione all’interiorità, che in questa breve opera, tutta incentrata sulla dimensione temporale dell’esistenza umana, sembra andare oltre i limiti dello stoicismo in senso stretto per anticipare riflessioni di pensatori successivi, da Agostino allo stesso Bergson.

 

La maggior parte degli uomini, Paolino, protesta per l’avarizia della natura, perché siamo messi al mondo per un briciolo di tempo, perché i giorni a noi concessi scorrono così veloci e travolgenti che, eccetto pochissimi, gli altri sono abbandonati dalla vita proprio mentre si preparano a vivere. E di questa disgrazia, che credono comune, non si dolse solo la folla e il volgo sciocco: tale stato d’animo provocò la protesta anche di grandi uomini. Di qui l’esclamazione del più grande dei medici, che la vita è breve, l’arte lunga; di qui l’accusa di Aristotele alle prese con la natura, indegna di un saggio, perché essa ha concesso agli animali di poter vivere cinque o dieci generazioni, e all’uomo, nato a tante e così grandi cose, è fissato un termine tanto più breve. Non abbiamo poco tempo, ma ne abbiamo perduto molto. Abbastanza lunga è la vita e data con larghezza per la realizzazione delle cose più grandi, se fosse tutta messa bene a frutto; ma quando si perde nella dissipazione e nell’inerzia, quando non si spende per nulla di buono, costretti dall’ultima necessità ci accorgiamo che è passata senza averne avvertito il passare. Sì: non riceviamo una vita breve, ma tale l’abbiamo resa, e non siamo poveri di essa, ma prodighi. Come ricchezze 
grandi e regali in mano a un cattivo padrone si volatilizzano in un attimo, ma, per quanto modeste, se affidate a un buon amministratore, aumentano con l’impiego, così la durata della nostra vita per chi sa bene gestirla è molto estesa[32].

Perché ci lagniamo della natura? Si è comportata generosamente: la vita, se sai usarne, è lunga. Uno è in preda a un’avidità insaziabile, uno alle vane occupazioni di una faticosa attività; uno è fradicio di vino, uno è abbrutito dall’ozio; uno è stressato dall’ambizione, che dipende sempre dai giudizi altrui, uno dalla frenesia del commercio è condotto col miraggio di guadagni di terra in terra, di mare in mare; alcuni, smaniosi di guerra, sono continuamente occupati a creare pericoli agli
altri o preoccupati dei propri; c’è chi si logora in una volontaria schiavitù, all’ingrato servizio dei potenti; molti non pensano che ad emulare l’altrui bellezza o a curare la propria; i più, privi di bussola, cambiano sempre idea, in balia di una leggerezza volubile e instabile e scontenta di sé; a certuni non piace nessuna meta, a cui dirigere la rotta, ma sono sorpresi dalla morte fra il torpore e gli sbadigli, sicché non dubito che sia vero ciò che in forma di oracolo si dice nel più grande dei poeti: «piccola è la parte di vita che viviamo». Sì: tutto lo spazio rimanente non è vita, ma tempo. Incalzano e assediano i vizi da ogni parte e non li lasciano risollevarsi o alzare gli occhi a discernere il vero. Ma col loro peso li tengono sommersi e inchiodati al piacere. Non hanno mai la possibilità di rifugiarsi in se stessi; se gli tocca per caso un momento di riposo, come in alto mare, dove anche dopo la caduta del vento continua l’agitazione, ondeggiano e non trovano mai pace dalle loro passioni. Credi che io parli di costoro, i cui mali sono alla luce del sole? Guarda quelli, la cui fortuna fa accorrere la gente: sono soffocati dai loro beni. Per quanti le ricchezze sono un peso! A quanti fa sputar sangue l’eloquenza e la quotidiana ostentazione del proprio ingegno! Quanti sono terrei per continui piaceri! A quanti non lascia respiro la calca dei clienti! Insomma, passa in rivista tutti costoro dai più piccoli ai più grandi: questo chiede assistenza, questo la dà, quello è imputato, quello difensore, quello giudice, nessuno rivendica per sé la sua libertà, ci si logora l’uno per l’altro. Informati di costoro, i cui nomi s’imparano a mente, e vedrai che si riconoscono a tali segni: questo corre dietro a quello, quello a quell’altro, nessuno appartiene a se stesso. E poi che c’è di più insensato dello sdegno di certuni? Si lagnano della boria dei potenti, che non hanno tempo di riceverli. Ha il coraggio di lagnarsi dell’altrui superbia uno che non ha mai tempo per sé? Lui almeno, chiunque tu sia, ti ha rivolto uno sguardo, sia pure con aria arrogante, lui ha abbassato l’orecchio alle tue parole, lui ti ha ammesso al suo fianco: tu non ti sei degnato di guardare dentro di te, di ascoltare te. Non
hai dunque ragione di rinfacciare ad alcuno cotesti servigi, giacché li hai resi non per il desiderio di stare con altri, ma per l’impossibilità di stare con te stesso[33]. [ … ]

La vita si divide in tre tempi: passato, presente, futuro. Di essi il presente è breve, il futuro incerto, il passato sicuro. Solo su questo la fortuna ha perduto il suo potere, solo questo non può essere ridotto in balia di nessuno. E proprio questo perdono gli affaccendati: non hanno tempo di voltarsi a guardare il passato,
e, se ne avessero, non è piacevole il ricordo di un’azione che rimorde. Perciò richiamano contro voglia alla memoria un tempo male impiegato e non hanno il coraggio di rievocare fatti i cui vizi, anche quelli sottratti alla vista del belletto di qualche piacere, a ritornarci su si manifestano. Nessuno, se non chi ha agito sempre sotto il controllo della sua coscienza, che mai s’inganna, si volge volentieri al passato; ma quello che ha avuto mire ambiziose, atteggiamenti insultanti, vittorie smodate, una condotta subdola, un’avidità insaziabile, una prodigalità illimitata, non può non temere la sua memoria. Eppure questa è la parte del nostro tempo sacrosanta e inviolabile, al di là di tutte 
le vicissitudini umane, fuori del regno della fortuna; inattaccabile dalla miseria, dalla paura, dalle malattie; non può essere sconvolta né strappata: perpetuo e tranquillo ne è il possesso. Solo a uno a uno sono presenti i giorni, e momento per momento; ma quelli del passato si presenteranno tutti al tuo comando, si faranno esaminare e trattenere a tuo piacere: gli affaccendati non hanno tempo di farlo. È privilegio di una mente serena e tranquilla spaziare in ogni parte della sua vita; l’animo 
degli affaccendati, come sotto un giogo, non può voltarsi e guardare indietro. Se ne va dunque la loro vita in un abisso, e come non serve a nulla cercare di riempire un vaso, se manca un fondo che riceva e tenga quello che ci metti, così non ha importanza la quantità di tempo concessa, se non c’è dove si depositi: passa attraverso animi lesionati e bucati. Il presente è brevissimo, tanto breve che ad alcuni sembra inesistente; infatti è sempre in corsa, scorre e precipita; finisce prima di giungere, e non tollera soste più che l’universo o le stelle, il cui incessante movimento non resta mai nel medesimo punto. Agli affaccendati dunque spetta solo il presente, che è così breve da non potersi afferrare, e un presente che si sottrae a chi è diviso tra molte occupazioni[34].

  1. A. Seneca, La brevità della vita, trad. it. di A. Traina, Rizzoli, Milano 1994, pp. 41-45, 65-67

 

[1] Ci interessa qui sottolineare come emerga dal frammento una
concezione tendenzialmente circolare del tempo: i vari enti, infatti, si generano e si distruggono, si combattono e si alternano secondo una precisa scansione destinata a ripetersi indefinitamente. Una tale concezione generale è destinata a essere prevalente, anche se non esclusiva, nel pensiero antico. Non sembra, invece, ancora presente quell’insistenza sugli aspetti negativi del tempo che prevarrà a partire da Parmenide (v. T 6); 
per Anassimandro esso è sì legato anche alla distruzione, ma
domina l’idea che rappresenti piuttosto un elemento di ordine e di regolarità nella realtà.

[2] Una delle possibili interpretazioni di questo oscuro frammento è quella che vi scorge una critica 
alla concezione anassimandrea del tempo. Eraclito, cioè, starebbe sottolineando quanto sia 
superficiale concepire il mondo come governato dal banale alternarsi ritmico degli eventi: egli, invece, cercherà di proporre una spiegazione più profonda.

[3] Non ci si può immergere 
due volte nello stesso fiume, perché fra la prima e la seconda immersione le acque del fiume non sono più le stesse; d’altra parte, come il fiume, anche noi, pur rimanendo apparentemente i medesimi, in realtà siamo mutati. Il frammento sottolinea che la relativa 
stabilità degli enti è solo illusoria, perché sotto di essa si cela un perenne divenire.

[4] Eraclito è comunemente presentato come il filosofo del divenire. Tuttavia, il divenire rappresenta soltanto un primo livello di approfondimento dell’interpretazione eraclitea della realtà. Sotto di esso, che scandisce l’alternarsi ciclico degli enti, si nascondono un ordine e una ragione (lógos) più profondi, incarnati da Eraclito nell’immagine del fuoco. Non è vero, dunque, che non vi sia nulla di stabile: paradossalmente, il principio permanente si identifica con il lógos eterno che governa la realtà e il suo incessante divenire. Comincia, dunque, almeno indirettamente, a essere posto il problema del rapporto fra 
tempo ed eternità. L’eterno stesso trova una sua prima definizione come “ciò che era, è e
sarà”.

[5] Il soggetto delle proposizioni enunciate nel brano è l’essere, vale a dire tutto ciò che è in quanto è. Di esso si afferma che, a rigore, non si può predicare né che era né che sarà. Infatti, una rigida applicazione del principio di non contraddizione implica che, non potendo lo stesso soggetto possedere caratteristiche differenti, l’essere, che in base al principio di identità per definizione è, non può possedere neppure le caratteristiche, necessariamente diverse dall’essere attuale, dell’essere nel passato e dell’essere nel futuro. L’essere, dunque, è in un eterno presente, ma non era e non sarà: il tempo, dunque, non esiste, se non come apparenza illusoria, opinione erronea della maggior parte degli uomini.

[6] Compare in questo frammento una concezione dell’eternità nuova e diversa rispetto a quella presentata da Eraclito. Se quest’ultimo, per sottolineare la permanenza del lógos, aveva
affermato che esso era, è e 
sarà, Parmenide capovolge tale caratterizzazione: l’essere non era né sarà, ma è in un immobile presente. Si potrebbe affermare che la differenza fra tempo ed eternità era in Eraclito puramente quantitativa, nel senso che l’eternità era concepita come la somma delle tre dimensioni del tempo, in sostanza un tempo infinito. Parmenide, al contrario, individua una vera e propria differenza qualitativa fra i due termini, radicalizzandone la contrapposizione: l’eternità
non è un tempo infinito, quasi un potenziamento del tempo stesso, bensì la negazione del tempo. L’eternità dell’essere si definisce non per il suo sussistere in ogni tempo, ma per il suo essere fuori del tempo e quindi fuori del divenire. In Eraclito il lógos, essenza profonda della realtà, era la legge eterna del divenire; in Parmenide, anche la differenza fra essere e divenire, come quella fra eternità e tempo, viene radicalizzata, ciò che divenisse, propriamente parlando, non potrebbe essere.

[7] Dell’essere non si può predicare né la generazione né la corruzione, che diventano puri nomi privi di significato. Infatti, se fosse nato dovrebbe aver avuto origine da qualcosa, cioè, in base al principio del terzo escluso, o dall’essere o dal non essere. Dal non essere non è possibile che nasca alcunché, perché, per 
 definizione, esso non esiste e da ciò che non esiste nulla può nascere; ma neppure può nascere dall’essere, perché, se così fosse, si verrebbe a creare una sorta di doppione dell’essere, che, in quanto altro rispetto all’essere, sarebbe, contemporaneamente e contraddittoriamente, anche non essere. Anche per questa via bisogna riconoscere che l’essere è tutto insieme nel presente e che il tempo e le vicende di generazione e di corruzione che in esso in apparenza si svolgono sono una pura illusione.

[8] È il famoso argomento di 
”Achilie e la tartaruga”. Zenone intende dimostrare che il movimento non esiste e, per far ciò, parte dall’ammissione dialettica della tesi dei suoi avversari conducendo, per confutarla, una dimostrazione per assurdo. Immaginiamo una gara di corsa fra Achille, velocissimo eroe greco, e una tartaruga, il più lento fra gli animali. Ipotizzando di concedere un vantaggio, sia pur minimo, alla tartaruga, dice Zenone, Achille non potrà mai raggiungerla: se infatti essa partirà avanti anche di un solo passo, Achille, prima di poterla raggiungere e superare, dovrà arrivare al punto da cui è partita; ma, intanto, la tartaruga si sarà spostata, sia pur di poco. Di nuovo, l’eroe dovrà giungere dove l’animale si è spostato per poterlo successivamente affiancare e oltrepassare; ma, ancora una volta, questo avrà percorso un breve tratto e si sarà nuovamente portato in vantaggio. E così via, all’infinito. Quindi, Achille non raggiungerà mai la tartaruga. L’unica soluzione 
per superare le contraddizioni implicite nel movimento sarà, dunque, quella di negare il movimento stesso.

[9] L’argomento si fonda sulla considerazione che, per poter percorrere uno spazio finito, bisognerà percorrere tutti gli infiniti
spazi in cui esso è divisibile, il che risulterà impossibile, almeno in un tempo finito; ma ammettere che uno spazio finito è percorribile in un tempo infinito significa, di fatto, negare che esso sia percorribile, ovvero, in altre parole, negare il movimento.

Il paradosso zenoniano ha tormentato per secoli filosofi e matematici. La soluzione data da questi ultimi si fonda sull’introduzione del calcolo infinitesimale. Sul piano filosofico Aristotele ritenne di poter superare le difficoltà ricorrendo ai concetti di potenza e di atto e sottolineando come sia il tempo che lo
spazio, sul cui rapporto gioca Zenone, siano sì infinitamente divisibili, ma soltanto in potenza, mentre non si daranno mai uno spazio o un tempo attualmente divisi in un numero infinito di parti. In particolare, dunque, essendo l’infinita divisibilità soltanto un’astrazione mentale, uno spazio finito sarà sempre composto, nella realtà, da un numero finito di parti, e risulterà pertanto percorribile, senza alcuna difficoltà di principio, in un tempo finito. La vera soluzione del
paradosso, sosterrà invece
Bergson, non risiede in argomenti di questo genere, i quali si fondano tutti su un’illegittima confusione fra tempo e spazio. Soltanto lo spazio, infatti, può essere effettivamente suddiviso in parti che potrebbero poi essere giustapposte per ricostruire l’intero, mentre il tempo reale non può essere sottoposto alla medesima operazione: esso è un unico flusso che non può essere spezzettato se non smarrendone la specificità e riducendolo, di fatto, a spazio. Neppure il movimento, quindi, in quanto processo che si svolge
nel tempo, sarà infinitamente 
divisibile, ma, sempre secondo Bergson, dovrà anch’esso essere considerato un unico indivisibile processo che solo impropriamente potrà essere descritto come la successiva occupazione di spazi differenti da parte di un corpo: gli spazi successivamente occupati, infatti, rappresentano gli stati in cui si trova un corpo all’inizio e alla fine di un determinato movimento, non certamente il movimento in quanto tale. Il paradosso zenoniano, così, più che essere risolto, viene dissolto dimostrandone l’inconsistenza, derivante dalla confusione fra tempo e movimento da un lato e spazio dall’altro. Le stessa soluzione proposta da Aristotele si fonderebbe sulla sostanziale, e secondo Bergson illegittima, equiparazione di tempo e spazio. Il medesimo discorso vale anche per le soluzioni di tipo matematico: ridurre il tempo, concepito in analogia con lo spazio, a parti sempre più piccole ci fornirà soltanto l’apparenza del continuo, ma non ci consentirà di riprodurre effettivamente l’indivisibile flusso della durata reale.

[10] La realtà è composta da quattro elementi o radici: terra, acqua. aria e fuoco.
Questi, secondo Empedocle sono in sé eterni e immutabili, ma ora si aggregano fino a formare un’unica massa indistinta, ora, invece, si disaggregano e si separano gli uni dagli altri. La forza aggregatrice è definita da Empedocle come Amicizia, mentre quella disgregatrice è chiamata Odio. È chiaro che né l’assoluto prevalere della prima, né quello della seconda danno origine al mondo come lo conosciamo noi: nel primo caso, infatti, avremo una massa sferica indifferenziata, mentre, nel secondo, le radici, totalmente separate le une dalle altre, non comporranno alcun aggregato. Il mondo, con la sua varietà di enti, esiste soltanto nelle fasi intermedie, quando, a partire da una situazione di assoluta aggregazione, ci si muove o verso la divisione, o, viceversa, quando, partendo dall’assoluta separazione, inizia un processo di aggregazione. Per questo motivo la concezione di Empedocle, 
più che ciclica, dovrà con maggiore correttezza essere definita pendolare, la realtà oscillando all’infinito fra un massimo di aggregazione e un massimo di divisione, separati da fasi di aggregazione relativa come quella che caratterizza il mondo attuale. Si noti che la generazione e la corruzione dei singoli enti, coincidenti rispettivamente con l’aggregazione e la disaggregazione delle radici, sono prodotte entrambe sia dall’Amicizia sia dall’Odio.

[11] Empedocle riprende alcuni
aspetti della concezione eleatica, ma, al contempo, la supera. L’eternità dell’essere viene garantita dall’immutabilità delle singole radici nelle loro caratteristiche qualitative, tuttavia, l’essere non può più venire considerato né uno né immobile, pena una contraddizione troppo evidente con la testimonianza dell’esperienza: le quattro radici danno origine ai singoli enti aggregandosi fra di loro, mentre la morte coincide con il disaggregarsi degli elementi componenti i corpi La realtà, dunque, è eterna quanto ai suoi componenti, ma transeunte negli aggregati che la costituiscono: gli elementi sono, come dice Empedocle, immobili in eterno all’interno del ciclo, in quanto, pur in sé immutabili, sono inseriti nel moto circolare di aggregazione e disaggregazione. Sembra quasi prefigurarsi la definizione platonica del tempo come «immagine mobile dell’eternità».

[12] Partendo da una situazione iniziale di totale mescolanza, l’intervento dell’intelletto cosmico dà luogo a un processo di progressiva separazione. L’azione dell’intelletto continua anche nel mondo attuale: essa, tuttavia, non si configura esclusivamente come un’operazione di divisione, ma genera i singoli enti tanto per unificazione quanto per separazione. In altre parole, se la situazione iniziale era caratterizzata da una mescolanza assolutamente omogenea, nella quale non era possibile distinguere le differenti qualità, nella situazione che deriva dall’intervento dell’intelletto la mescolanza permane, ma si tratta di una mescolanza relativa, che implica comunque il prevalere quantitativo in ogni cosa di alcune qualità: sono questi caratteri prevalenti che noi percepiamo, mentre tutti gli altri risultano impercettibili.

[13] La descrizione dell’origine del mondo fornita da Anassagora presenta evidenti analogie con quella di Empedocle. Per entrambi i pensatori, infatti, lo stato di perfetta e indistinta mescolanza delle qualità viene superato per intervento di forze che producono un processo di separazione; per entrambi, inoltre, tanto gli elementi che costituiscono la realtà fisica quanto le forze che agiscono su di essi 
sono eterni, mentre sono propriamente calati nel tempo i singoli enti che derivano dall’aggregazione e dalla disgregazione. Tuttavia, le differenze sono altrettanto evidenti. Mentre per Empedocle lo svolgimento temporale ha un andamento ciclico, per Anassagora la mescolanza originaria non si configura solo come un momento all’interno di un ciclo destinato a ripresentarsi all’infinito, bensì come un cominciamento assoluto, a partire dal quale ha inizio la progressiva separazione e che sembra destinato a non ripresentarsi mai più. Tale divergenza è certamente connessa al differente numero e alla diversa natura delle forze che nei due autori sono la causa del movimento degli elementi. Empedocle ipotizza due forze che agiscono in senso diametralmente opposto: 
l’Amicizia aggrega, l’Odio disaggrega ed entrambe non possono fare altro. Se il tempo avesse un andamento unilineare, col prevalere dell’una o dell’altra di tali forze si giungerebbe a una situazione definitiva di totale aggregazione o di totale disaggregazione e il mondo non potrebbe esistere. Ipotizzando, invece, un perenne oscillare fra tali situazioni estreme, la condizione di aggregazione e disaggregazione a un tempo che caratterizza il mondo attuale potrà verificarsi nelle fasi intermedie di questo processo pendolare. Anassagora, invece, non è costretto a ricorrere a tale processo per spiegare l’esistenza del mondo attuale. L’intelletto da lui postulato quale unica forza che agisce sugli elementi, capace di aggregarli e disaggregarli, può, partendo dall’assoluta mescolanza, produrre e successivamente mantenere la situazione di parziale separazione che caratterizza l’esistenza dei singoli enti: una volta superata l’omogeneità originaria, il processo di disaggregazione si arresta e non prosegue fino alla totale separazione degli elementi. Per Anassagora, dunque, l’intelletto, che all’inizio ha prodotto il mondo
operando la disgregazione dell’unità originaria, lo mantiene poi indefinitamente garantendo il permanere di una relativa separazione degli elementi: la dinamica della realtà e il tempo in cui essa si dipana hanno dunque un punto di origine assoluto e un andamento lineare e unidirezionale. Nel dettaglio, certamente l’alternarsi ciclico della generazione e della corruzione degli enti permane, ma la struttura ciclica complessiva del tempo viene rifiutata: una concezione, questa, destinata a rimanere sostanzialmente minoritaria nel pensiero greco classico.

[14] Il padre generatore di cui 
si parla è il demiurgo, il divino artigiano che plasma il mondo sensibile nello spazio inteso come il ricettacolo delle forme, avendo quale modello il mondo ideale. Quest’ultimo, nella sua perfezione, è dotato di vita e di intelletto, per cui la
realtà fisica, essendone l’imitazione, sarà anch’essa vivente e ne rifletterà la razionalità e la bellezza. Il rapporto fra i due livelli della realtà, tuttavia, è assai complesso. Da un lato, infatti, nel suo tendere al mondo ideale, quello sensibile ne ricalca gli aspetti positivi, ma dall’altro, per il fatto stesso di esserne soltanto un’imitazione, non potrà mai attingere la perfezione del modello. Questo limite dell’imitazione sensibile rispetto al suo modello soprasensibile si esprime, in primo luogo, nel fatto che, mentre le idee sono fuori del tempo e dello spazio, le cose materiali derivano dall’attività ordinatrice con cui il demiurgo cala queste forme ideali in quel principio di disordine e casualità che è rappresentato dallo spazio. Le realtà fisiche, anzi, più che “essere”, a rigore “divengono”, poiché, oltre che nello spazio, sono calate anche nel tempo. Ma che cos’è, allora, il tempo?

[15] Se il modello ideale è eterno, il mondo fisico prodotto dall’attività del demiurgo, per il fatto stesso di essere generato, non potrà essere caratterizzato dall’eternità. Come le idee sono immobili nella loro eternità, così le loro mobili imitazioni saranno collocate in un’immagine mobile dell’eternità. Tale immagine è il tempo. Allo stesso modo, come ogni idea rappresenta l’unità di una molteplicità, nel senso che esiste, ad esempio, un’unica idea di bellezza che pure sarà partecipata da tutte le realtà sensibili belle, così, mentre l’eternità esiste tutta insieme, il tempo tenta in qualche modo di riprodurla scandendosi in una pluralità ordinata di dimensioni: il passato, il presente e il futuro.

[16] Platone non afferma che il tempo si identifica con il moto circolare dei cieli e degli astri, bensì che il tempo è stato prodotto insieme con essi. Questi, infatti, più che il tempo, rappresentano la sua misurabilità. Il tempo esiste in quanto in esso si possono individuare delle parti che fungano da unità di misura: i movimenti regolari dei corpi celesti, nelle loro reciproche differenze e relazioni, assolvono a tale funzione.

[17] L’eternità non si può ridurre semplicemente a una infinità di tempo. La somma di un infinito passato e di un infinito futuro che si incontrano nell’istante presente non costituisce ancora l’eternità, bensì, appunto, il
tempo come immagine mobile e moltiplicata dell’eternità una e immobile. Dell’eternità, semmai, si può predicare soltanto un assoluto
presente: essa è assenza di tempo.

[18] La concezione platonica del tempo si colloca, per così dire, a metà strada fra quella di chi, come ad esempio Anassimandro, lo aveva inteso come espressione dell’ordine cosmico e chi invece, come Parmenide, vi aveva visto il segno dell’inconsistenza
ontologica del mondo sensibile. Per Platone, infatti, il tempo 
esprime certamente la presenza di un ordine, che, però, è quello appartenente a un mondo che è soltanto l’imitazione, sempre inadeguata, del mondo vero, il mondo delle idee. Solo a quest’ultimo inerisce l’ordine assoluto che compete esclusivamente a ciò che è immobile ed eterno. Il tempo, dunque, nel momento stesso in cui esprime la presenza di una relativa armonia nel mondo sensibile, implica anche l’irrimediabile caducità di tutto ciò che ne fa parte.

[19] Il carattere ciclico del tempo e il suo essere misurato dal moto regolare dei pianeti gli derivano dall’essere un’immagine dell’eternità: fra tutti i movimenti, infatti, solo quello circolare, nel suo tornare all’infinito su se stesso, riesce a imitare a livello sensibile, sia pure approssimativamente, la perfetta immobilità di ciò che è eterno, cioè del mondo ideale.

[20] Per il fatto stesso di definirlo come un’immagine mobile dell’eternità, Platone connette il tempo allo spazio. In effetti, la spazialità è ciò che caratterizza le cose sensibili in quanto distinte dai loro modelli ideali: quando questi ultimi, che di per sé esistono al di fuori dell’estensione, vengono calati nello spazio, hanno origine le realtà particolari e molteplici. Da questo punto di vista, si potrebbe essere tentati di dire che il tempo è per Platone una spazializzazione 
dell’eternità: da un lato, infatti, come si è detto, in generale ogni passaggio dalla dimensione ideale (cui appartiene l’eternità) a quella fisica (cui appartiene il tempo) è in sostanza un processo di spazializzazione; dall’altro, più specificamente, il
tempo si configura come il tentativo di riprodurre l’eternità attraverso i movimenti degli astri
nello spazio, che del tempo rappresentano le unità di misura. In qualche modo, dunque, il tempo risulta essere un concetto derivato rispetto a quello di spazio. Tale tendenziale riduzione o assimilazione del tempo allo spazio sarà destinata, sia pure in forme sempre differenti, a un notevole successo nell’ambito del pensiero filosofico e scientifico successivo: proprio su di essa si appunteranno le critiche di Bergson, che rivendicherà la radicale reciproca eterogeneità
dei due concetti.

[21] Le tesi secondo cui il tempo si identificherebbe, rispettivamente, con il moto della sfera celeste o con la sfera celeste stessa, coincidono con quella espressa da Platone nel Timeo e con quella sostenuta probabilmente da alcuni pitagorici. Mentre la seconda viene considerata da Aristotele troppo ingenua per essere degna di una seria confutazione, la prima viene discussa nelle righe successive. È dubbio, tuttavia, che Platone 
volesse davvero sostenere l’identità fra il tempo e i movimenti degli astri: questi ultimi, semmai, sembrano essere da lui considerati il fondamento della misurabilità del tempo. In ogni caso, prima ancora di passare alla critica dell’identificazione fra tempo e movimento in generale, appare subito chiaro ad Aristotele che il tempo non può essere ridotto al movimento
circolare dei cieli. Da un lato, infatti, se così fosse, una parte di un moto circolare sarebbe ancora tempo (essendo sempre tempo una qualsiasi parte di esso), pur non essendo più di per sé circolare. D’altra parte, se ci fossero più cieli in movimento, ognuno di questi moti rappresenterebbe un tempo: si giungerebbe così al paradosso di più tempi contemporanei.

[22] In primo luogo si chiarisce che il tempo non può essere identificato con il movimento, né, più in generale, con il mutamento: il tempo, infatti, è presente dappertutto, mentre il mutamento esiste solo nella singola cosa che cambia; inoltre, il tempo, a differenza del mutamento, non può essere più o meno veloce. Detto questo, è tuttavia evidente che il tempo è strettamente connesso al mutamento: infatti, nel caso che non si percepisca alcun mutamento, non si è neppure in grado di cogliere lo scorrere del tempo. Aristotele non vuole qui sostenere l’interiorità del tempo, bensì soltanto sottolineare che non c’è coscienza del tempo ove non ci sia coscienza del mutamento, sia esso esterno o interno. Il tempo, quindi, non essendo movimento ma non potendo esserci senza quest’ultimo, dovrà necessariamente essere una proprietà del
movimento.

[23] Dal momento che lo spazio, nel quale si verifica il movimento di cui il tempo è una proprietà, è continuo, cioè infinitamente divisibile, anche il tempo sarà parimenti continuo. D’altra parte, i concetti di “prima” e “dopo”, che fondano il concetto stesso di tempo, sono
in origine concepiti nello spazio, nel senso che si riferiscono ai luoghi successivamente occupati da un mobile lungo la traiettoria del suo movimento. Si giunge così alla definizione del tempo come numero del movimento secondo il “prima” e il “poi”. Tale definizione significa che il tempo è l’aspetto misurabile del movimento; tant’è che un movimento viene misurato, cioè considerato più o meno rapido, a seconda del tempo maggiore o minore in cui si svolge. Il tempo è del dunque, un numero, ma non nel senso di essere ciò mediante cui misuriamo il movimento, bensì ciò che del movimento viene misurato.

[24] Per Aristotele il mondo sensibile non è, come per Platone, un’imitazione di quello ideale e quindi la realtà fisica viene da lui rivalutata sul piano ontologico. Tuttavia il mutamento, e con esso il tempo che ne è una proprietà, resta strettamente connesso all’idea di corruzione: la corruzione è, infatti, un tipo di mutamento e ogni mutamento è riducibile, in ultima istanza, a movimento locale. Come sotto molti altri aspetti, anche relativamente a questo problema la concezione aristotelica risulta meno distante da quella platonica di quanto potrebbe apparire.

[25] Il tempo è una realtà 
pienamente oggettiva, cioè 
propriamente appartenente alle cose, oppure non esisterebbe se non ci fosse un soggetto che lo percepisce? La soluzione proposta da Aristotele, che è il primo a porre esplicitamente la questione, sembra in qualche modo individuare una
via mediana fra queste alternative: è certamente vero che il tempo, in quanto numero, non può esistere senza un intelletto che numeri, ma vi è pur sempre anche un divenire delle cose che costituisce l’oggetto di questa attività di numerare; e nessuno di questi due aspetti, di fatto, può veramente esistere senza 
l’altro. Il tempo, dunque, presenta sia un aspetto soggettivo sia uno oggettivo.

[26] Per Aristotele, il movimento è soltanto uno dei quattro tipi di mutamento, che si distinguono fra di loro a seconda della specifica categoria rispetto alla quale avvengono: esso è, precisamente, mutamento
secondo il luogo. Le altre forme del mutamento sono la generazione e la corruzione (secondo la sostanza), l’alterazione (secondo la qualità) e l’accrescimento e la diminuzione (secondo la quantità). Il movimento locale, tuttavia, viene 
considerato la forma fondamentale del mutamento in quanto tutte le altre, in ultima istanza, possono essere ricondotte a quello: l’accrescimento, ad esempio, si configura come un aumento di volume e implica quindi uno spostamento di parti nello spazio. Il tempo è la misura di ogni tipo di mutamento. E, come il medesimo numero può misurare due gruppi di cose eterogenee, così lo stesso tempo può misurare movimenti e mutamenti differenti. Non solo, quindi, il tempo sarà la misura di tutti e quattro i tipi di mutamento, ma tutti i singoli movimenti degli enti fisici avverranno in un unico tempo: ancora una volta, si rifiuta l’idea dell’esistenza
contemporanea di più tempi distinti.

[27] Per misurare il tempo in generale, è necessario individuare un tempo determinato che possa fungere da unità di misura. D’altra parte, poiché il moto locale è la forma fondamentale di mutamento e, fra tutti i tipi di movimento, il moto circolare uniforme, nella sua perfezione, risulta quello meglio conoscibile, esso potrà essere preso come unità di misura degli altri movimenti e del tempo. Di qui anche
l’errata convinzione – che
Aristotele attribuisce impropriamente a Platone – dell’identità del tempo con il moto della sfera celeste. Se l’idea che il tempo si identifichi con il movimento della sfera celeste è respinta da Aristotele, egli, invece, condivide la concezione circolare del tempo, nel
senso che esso misura ed è misurato dal moto circolare. Tutto, infatti, procede come se fosse in circolo. Dio, il primo motore immobile, produce, in quanto causa finale e oggetto di amore e desiderio, il moto circolare degli astri, il quale si riflette, soprattutto attraverso il movimento del sole, nell’alternarsi delle stagioni, che influenzano i cicli riproduttivi degli esseri viventi. Gli stessi quattro elementi, poi, si trasformano gli uni negli altri secondo un andamento ciclico. Certo, mentre il moto dei cieli si effettua in un circolo reale, per cui ogni singola sfera celeste riproduce eternamente il medesimo movimento, il ciclo delle stagioni, quello riproduttivo e quello della trasformazione degli elementi sono circoli metaforici; essi non riguardano i singoli individui, destinati a nascere e perire, bensì soltanto le specie e, più in generale, le strutture fondamentali della realtà, che attraverso tali cicli si garantiscono la continuità. La ciclicità, d’altra parte, non implica un ripetersi assolutamente identico degli eventi, bensì, appunto, l’infinito ripresentarsi delle medesime strutture fondamentali: i figli, in quanto singoli individui, non sono mai perfettamente identici ai genitori, ma lo sono quanto alla specie e all’essenza.

[28] Anche qui emerge una concezione non lontanissima da quella platonica. Se per Platone il tempo era un’immagine mobile dell’eternità, per Aristotele esso, pur non identificandosi semplicemente con il moto circolare proprio delle sfere celesti, vi è strettamente connesso come sua misura. Tale moto, d’altra 
parte, viene generato dal primo motore immobile in quanto quest’ultimo è oggetto di amore e desiderio. In altre parole, esso, nel suo ritornare all’infinito su se stesso, è la migliore imitazione possibile che un corpo dotato di movimento possa realizzare per avvicinarsi all’eterna immutabilità dell’incorporeo principio divino: non a caso, gli astri sono caratterizzati dal solo moto locale, che non implica generazione e corruzione; sono, cioè, ancora molto vicini alla perfezione. A sua volta, la ciclicità che caratterizza tutti gli avvenimenti del mondo sublunare è, in un certo senso, nella sua circolarità metaforica, un’ulteriore e più imperfetta imitazione dei moti celesti da cui sostanzialmente dipende. Malgrado la definizione del tempo fornita da Aristotele sia diversa da quella platonica, anche nel suo pensiero esso è molto prossimo a un’immagine mobile dell’eternità.

[29] Sulla base di un’argomentazione che risale al Sofista platonico, anche gli stoici ritengono che si possa definire come esistente ciò che è in grado di agire o di subire un’azione. Ma Platone pensava, in base a tale premessa, di poter attribuire l’essere anche e soprattutto a realtà incorporee come le idee, in quanto esse hanno relazioni reciproche e possono essere conosciute: agiscono, quindi, e subiscono azioni. Gli stoici, invece, credevano che, a rigore solo i corpi potessero agire e patire e, di conseguenza, riconobbero l’esistenza soltanto delle realtà corporee, giungendo a una concezione sostanzialmente materialistica. Tuttavia, essi finirono poi per ammettere quattro importanti eccezioni: il significato, il vuoto, il luogo, il tempo. Il significato è la particolare 
facoltà che possiedono i
segni di riferirsi alle cose significate. Il segno e la cosa significata sono sempre corpi, mentre il significato è incorporeo: è corpo, ad esempio, la parola “matita” che pronuncio, in quanto il suono è una vibrazione dell’aria; ed è corpo la matita che sta sul tavolo e che volevo indicare con quella parola; ma il significato, cioè la capacità che la parola “matita” ha di riferirsi a quel determinato oggetto, è incorporeo. Per quanto riguarda il vuoto e il luogo, bisogna 
ricordare che gli stoici non
concepivano l’esistenza del vuoto nel mondo nella forma di interstizi fra particelle di materia, come invece facevano gli atomisti; accettavano, però, l’idea che esso si trovasse al di fuori della quantità finita di materia che costituisce il mondo. Il vuoto di cui parlavano è quindi lo spazio privo di corpi che circonda l’universo fisico, mentre il luogo è la porzione di spazio occupata da un corpo. Anche il tempo, infine, come già il luogo, è qualcosa in cui sono e si muovono le cose. Si noti, quindi, come ci sia un certo imbarazzo nel pensiero stoico a riconoscere, da un lato, che ai quattro incorporei non si può propriamente attribuire l’essere secondo il criterio dell’agire o subire un’azione, e a dover ammettere, dall’altro, la necessità di attribuire loro una qualche forma di realtà, senza la quale risulterebbero inspiegabili fenomeni come la comunicazione linguistica (nel caso del significato) o il movimento (nel caso del tempo e del luogo).

[30] Zenone, Cleante e Crisippo, i primi tre scolarchi della Stoa, ripropongono una concezione ciclica del 
tempo molto comune nell’antichità classica. A differenza di quanto avveniva nei predecessori, questa dottrina si presenta, nel loro pensiero, in forma rigida
e puntuale: per questi autori non si tratterà, quindi, di una ciclicità approssimativa, come quella esemplificata dalle stagioni, in cui si ripresentano ogni anno le stesse situazioni climatiche, gli stessi processi riproduttivi ecc., ma non i singoli eventi, che invece si verificano in maniera unica e irripetibile. Per gli stoici, infatti, sia pure a distanza di enormi lassi di tempo, si ripresentano ogni volta gli stessi identici enti, che compiono o subiscono le stesse identiche azioni secondo cicli che si ripetono dall’eternità. In effetti, secondo gli stoici, la realtà è governata dall’interno da un’unica ragione universale, la cui azione, per la sua stessa perfezione, non potrà che estrinsecarsi in un inesorabile determinismo; ciò esclude qualsiasi possibilità di scostamento dalla rigida concatenazione causale degli eventi. L’intera realtà, al termine di un lunghissimo periodo, si dissolverà in una grande conflagrazione, un fuoco cosmico che, sulla scia di una concezione risalente a Eraclito, la Stoa interpreta come la stessa Incarnazione della ragione universale o logos. A partire da questo, che
contiene in sé, quasi come semi, le cause di tutto ciò che in seguito si svilupperà, ricomincerà un nuovo ciclo, il quale, in quanto espressione della stessa ragione immanente, non potrà che riproporre, fin nei minimi dettagli, un’identica sequenza di fatti. E così, all’infinito.

[31] Fra le concezioni che, in epoche 
successive, presenteranno maggiore affinità con quella stoica, meritano di essere citate quelle 
di Spinoza e di Nietzsche (vedi Testi
17 e 24). Dallo stoicismo Spinoza eredita soprattutto l’idea di una realtà regolata da leggi rigidamente deterministiche, espressione di una razionalità immanente. Insieme al razionalismo deterministico, Spinoza assume anche una delle contraddizioni fondamentali del pensiero stoico. Entrambe le concezioni, infatti, sono incentrate sulla dimensione etica: loro scopo è insegnare all’uomo come pervenire, attraverso il riconoscimento della propria appartenenza all’ordine necessario degli eventi, a una condizione di annullamento o depotenziamento delle passioni che porti alla tranquillità dell’animo e, con essa, alla felicità. Ma che senso ha proporre una dottrina morale in un mondo in cui tutto risulta rigidamente determinato, comprese le convinzioni e le scelte degli uomini, al punto che anche queste si ripresenteranno ciclicamente in eterno nella loro puntuale identità? Come si potrà indurre qualcuno ad aderire alla concezione stoica o spinoziana, se tale adesione è essa stessa, secondo tali dottrine, frutto della necessaria razionalità del tutto? Un tentativo di spiegazione potrà essere quello di sottolineare come la stessa opera di insegnamento, con la convinzione che produce, deve essere
considerata un momento del procedere deterministico della realtà: non a caso gli stoici sostenevano che ha senso pregare la divinità non perché gli uomini possano piegarne la volontà, ma perché tanto l’atto di devozione quanto il comportamento divino si inquadrano nella stessa rigida concatenazione causale. Una spiegazione, forse, almeno in parte convincente su un piano astrattamente logico, ma certo insoddisfacente su un piano psicologico: difficilmente qualcuno si impegnerà in un’opera di convincimento se penserà che il suo interlocutore non è dotato della facoltà di scegliere fra interpretazioni differenti della realtà. È ciò che ben aveva capito Epicuro, anch’egli interessato, negli stessi anni in cui maturava la posizione stoica, a proporre un insegnamento morale orientato alla conquista della felicità intesa come serenità e assenza di dolore. Egli infatti, per conservare un senso alla libera scelta dell’uomo, compresa quella relativa all’adesione a una determinata prospettiva etica, introdusse nel suo meccanicismo atomistico l’idea del clinamen, casuale deviazione di alcune particelle di materia dalla loro traiettoria, tale da non stravolgere la sostanziale uniformità del comportamento del mondo fisico, ma capace di introdurre quel minimo di indeterminazione sufficiente a salvaguardare il libero arbitrio. D’altra parte, se lo spinozismo pare ereditare le contraddizioni proprie del determinismo stoico, Nietzsche propone la dottrina dell’eterno ritorno con la sua rigida ciclicità temporale. In effetti, anche tale dottrina sembrerebbe non priva di difficoltà sul piano etico. Come si è già accennato, infatti, l’idea di un’eterna, puntuale riproposizione delle cose e degli eventi dovrebbe risultare incompatibile con la possibilità di una libera scelta. Di conseguenza, sembrerebbe insensata l’idea presente tanto nel pensiero stoico quanto in quello nietzscheano, dell’amor fati, della spontanea accettazione del necessario ritmo degli eventi da parte dell’uomo come via al raggiungimento della piena realizzazione di sé e, con ciò, della felicità: anche tale accettazione, infatti, dovrebbe essere considerata deterministicamente necessitata. Ma è qui opportuno fare qualche precisazione relativa alle differenze che, pur nell’apparente somiglianza, rendono radicalmente differenti la posizione stoica e quella di Nietzsche. In primo luogo, infatti, la 
ciclicità del tempo della concezione stoica è espressione di
una ragione che permea l’intera
realtà, mentre l’eterno ritorno nietzscheano è inserito in un contesto irrazionalistico o, comunque, vitalistico. In secondo luogo, e soprattutto, l’eterno ritorno, così come fu concepito dal filosofo tedesco, non è una dottrina metafisica che descrive come stanno le cose nella realtà; in questo caso, come in effetti avviene nella corrispondente dottrina stoica, risulterebbe difficilmente spiegabile come sia possibile inserirsi con una libera scelta nella perfetta circolarità del tempo in cui tutto è già 
avvenuto e si ripeterà per l’eternità. Per Nietzsche, al contrario, l’eterno ritorno non è una realtà, bensì un’interpretazione della realtà, che l’uomo deve scegliere se vuole dare un valore assoluto a ogni suo atto nel mondo e quindi alla sua vita.
Ciò che risulterebbe impossibile di fronte a una realtà, che sarebbe comunque quella che è e non potrebbe essere arbitrariamente mutata dall’uomo, diventa possibile come libera scelta dell’immagine di realtà e di tempo nella quale l’individuo
decide di vivere. Il paradossale motto di tale atteggiamento sarà: «così volli che fosse».

[32] È tipico di Seneca, come peraltro del pensiero filosofico romano in generale, tradurre le dottrine dei grandi pensatori greci, in ammaestramenti di vita più immediati di quanto non fossero, il più delle volte, nelle loro versioni originali. Pur in questa veste non tecnica, peraltro – e 
anzi forse proprio grazie a essa – emergono nel discorso di Seneca elementi che vanno oltre l’insegnamento della scuola stoica cui pure egli apparteneva per anticipare temi che saranno svolti, magari con maggiore rigore argomentativo, da pensatori posteriori a volte anche di molti secoli: tutto ciò fa di Seneca un filosofo capace di parlare un linguaggio molto vicino all’uomo moderno. Proviamo a indicare alcuni di questi temi. In primo luogo, compare qui una distinzione fra il tempo oggettivo, quello che scorre in maniera totalmente indipendente dalla nostra volontà e dal nostro comportamento, e quello soggettivo, il tempo della vita che dipende, in qualche misura, da noi, che muta a seconda di come lo utilizziamo mentre il primo scorre con regolarità e costanza e non può essere né accorciato né allungato, il secondo potrà essere più o meno lungo in funzione del nostro atteggiamento nei confronti dell’esistenza. C’è poi l’idea che, 
per ritrovare il tempo destinato altrimenti a sfuggirgli fra le mani, l’uomo debba tornare nella propria interiorità da cui tende ad allontanarlo la pressione distraente della vita quotidiana.

Infine, le tre dimensioni del tempo. Seneca mostra di privilegiare il passato perché, a differenza del presente che ci appare breve e del futuro che ci si offre come incerto, esso ci dà la garanzia di un possesso sicuro e inattaccabile. Naturalmente, perché una posizione di questo genere abbia un senso non bisogna considerare il passato per ciò che è indipendentemente da noi, poiché, in tal caso, bisognerebbe dire che esso
non esiste più e quindi non ci può in alcuna maniera riguardare. Bisognerà, semmai, considerare il passato in quanto soggettivamente depositato nella memoria, la quale, allora, ci si presenterà come il nostro più autentico possesso, quasi che la nostra stessa personalità si identifichi in qualche misura con essa. Sono tutti temi, questi, che, sviluppati in forma più tecnica e con nuovi strumenti concettuali, saranno ripresi ad esempio da Agostino
(v. T 16) e, molto più tardi, dallo stesso Bergson.

[33] Rivolgendosi a Paolino, importante funzionario imperiale, forse suo suocero o futuro suocero, Seneca enuncia subito la tesi che cercherà di dimostrare, o, meglio, di mostrare con una serie di esempi, nel prosieguo dell’opera. Contro il senso comune, che troppo spesso trova concordi anche uomini eccellenti, dal medico Ippocrate, di cui si cita un famoso aforisma, ad Aristotele, Seneca sostiene che la vita umana non è breve: sono gli uomini stessi a renderla tale sprecandola in futili attività. Per Seneca, poi, Sono sostanzialmente sullo stesso piano la ricerca del piacere e quella della gloria politica: si tratta in ogni caso di
diversivi che disperdono l’uomo in mille impegni esteriori e gli impediscono di vivere la propria più autentica esistenza, che si identifica con la dimensione interiore. Il peggior difetto dell’uomo è, dunque, l’incapacità di ascoltare se stesso e vivere con se stesso. Troppo generosi del nostro tempo come se fosse privo di valore, spesso non ci accorgiamo di vivere solo una minima parte degli anni che la natura ci ha concesso, anche quando essi sono numerosi: il tempo trascorre, ma di questo ben poco è stato propriamente vera vita.

[34] Seneca riprende qui la
tradizionale divisione del tempo secondo le tre dimensioni del presente, del passato e del futuro. Egli privilegia il passato. Infatti, esso solo, in qualche misura, esiste: il presente è talmente breve da essere privo di dimensione e il futuro non c’è ancora ed è incerto, mentre del passato, nella sua immutabilità ormai al riparo dalle avversità della sorte, possiamo avere pieno possesso. Ma di questa dimensione del tempo, che è quella che più potrebbe appartenerci, gli affaccendati, cioè coloro che passano il proprio tempo nell’inutile ricerca del piacere, della gloria, del potere o del denaro, non sono in grado di fruire. In primo luogo, infatti, essi non hanno alcun desiderio di richiamare alla memoria un tempo passato che è stato sprecato: un tale ricordo li farebbe vivere in un perpetuo rimorso e in un doloroso rimpianto. In secondo luogo, anche volendo, l’affaccendato non ha il tempo di soffermarsi a ricordare, travolto com’è nella corsa cui lo condannano i quotidiani impegni. Il tempo e la vita sfuggono dalla sua memoria e dalla sua anima come l’acqua da un recipiente bucato. Mentre allo stolto si sottraggono insieme il presente del quale non sa fare buon uso e il passato che non è in grado di trattenere, il saggio, che vive lo stesso presente con maggior frutto, ha in qualsiasi momento a
disposizione ogni dimensione del proprio tempo: in particolare, egli potrà sempre volgersi al passato che, rispetto al presente sempre fuggevole e all’incerto futuro, gli si presenterà come un sicuro tesoro di ricordi cui guardare con animo sereno.

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